NEL CUORE UMILE RINASCE LA SPERANZA

25.10.2025

DOMENICA 26 OTTOBRE 2025

XXX Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Il pubblicano tornò a casa giustificato, a differenza del fariseo Lc 18,9-14


Introduzione

La pericope evangelica della liturgia odierna è un tutt'uno, a parer della maggior parte degli esegeti, con il Vangelo della scorsa settimana, in cui Gesù narrava la parabola della vedova importuna e del giudice disonesto, esortando ad avere una preghiera insistente e perseverante verso il Cielo che sempre ascolta i suoi che gridano a Lui giorno e notte.
Si concludeva però con quella domanda sentenziale e provocatoria: "Quando il Figlio dell'uomo verrà, troverà la fede sulla terra?" Anche oggi Gesù vuol lasciarci un messaggio usando il genere letterario della parabola. All'epoca di Gesù, la gente era abituata ad apprendere attraverso racconti che prendevano spunto da situazioni concrete e reali della vita quotidiana; questa modalità di insegnamento, infatti, rappresentava una tradizione pedagogica ben consolidata, che ancora oggi riscontriamo in moltissime culture dell'Oriente e dell'Africa. Non si tratta di una novità introdotta solo da Gesù: già nell'Antico Testamento troviamo numerosi esempi di tale metodo didattico. Ad esempio, nel libro dei Gd (9,7-20), Jotam, unico superstite tra i figli di Gedeone, utilizza una lunga e dettagliata parabola per denunciare l'ingiustizia che era stata inflitta alla sua famiglia. Ugualmente, il profeta Natan sceglie di rivolgersi al re Davide con una parabola, mettendolo di fronte alla gravità del suo comportamento, sia per quanto riguarda l'adulterio sia per il delitto commesso (2 Sam 12,1-7). Anche nel libro del profeta Isaia è presente una parabola che viene usata per richiamare Israele e metterne in luce la condotta sbagliata (Is 5,1-7). Questi esempi dimostrano come il linguaggio parabolico fosse un efficace strumento educativo e di riflessione già nella tradizione ebraica delle Sacre Scritture.

La parabola, in quanto racconto che prende spunto da situazioni concrete della vita quotidiana e umana, ma che allo stesso tempo possiede un profondo significato spirituale, era in grado di attirare l'attenzione delle persone con una forza molto maggiore rispetto a discorsi astratti o esclusivamente teorici. Questo tipo di narrazione risultava più accessibile e memorabile, proprio per la sua incisività e per il fatto che spesso descriveva situazioni nelle quali ciascuno poteva riconoscersi. Le parabole non si limitavano a trasmettere insegnamenti: erano progettate per far pensare, per stimolare la riflessione personale. Lo stesso termine "parabola" evoca l'idea di una provocazione, di uno stimolo che invita a interrogarsi. Gesù faceva proprio questo uso delle parabole: le raccontava per suscitare domande interiori negli ascoltatori. Spesso, al termine della narrazione, Gesù coinvolgeva direttamente chi lo ascoltava con quesiti del tipo: "Che ve ne pare?", "Qual è la vostra opinione?", oppure "Chi dei due?". Un vero educatore non si limita a trasmettere un messaggio, ma cerca sempre di ottenere una risposta, di verificare se il pubblico abbia compreso o sia stato toccato nel profondo; e Gesù, sotto questo aspetto, rappresenta il modello più alto di maestro.

Le parabole, inoltre, avevano la caratteristica di provocare una reazione negli ascoltatori: alcuni, ascoltandole, riconoscevano la verità delle parole di Gesù, altri invece si sentivano messi in discussione e lo contestavano apertamente. C'era chi riusciva a cogliere il senso profondo del racconto, e chi al contrario rimaneva confuso o turbato; i discepoli stessi chiedevano spesso spiegazioni per comprenderne il significato, mentre altri si allontanavano infastiditi o contrariati. La parabola proposta oggi trasmette un messaggio inequivocabile: affinché la fede sia davvero autentica, e di conseguenza anche la preghiera che ne scaturisce, essa deve essere caratterizzata non soltanto dalla perseveranza e dalla fiducia, ma soprattutto da una profonda umiltà.

  • Stili diversi

Il brano pone come sfondo scenico due personaggi antitetici e opposti, sia per condizione sociale sia per stile di vita spirituale nei confronti di Dio e degli uomini. La premessa è la chiave ermeneutica per comprenderne il senso. Gesù la narra per tutti coloro i quali credono di essere intimamente giusti e santi e quindi si sentono in dovere di disprezzare e giudicare gli altri. Come ammonisce la Scrittura: «Non giudicate, per non essere giudicati» (Mt 7,1). I farisei erano molto ligi al formalismo e al legalismo religioso, osservando quasi ossessivamente le norme e le tradizioni della legge. Ma spesso, non tutti ovviamente, dimenticavano il cuore della legge stessa: misericordia, giustizia e fedeltà, come ricorda il profeta Osea: «Voglio l'amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti» (Os 6,6).

I pubblicani invece erano, come dice la parola stessa, considerati pubblici peccatori. Erano ebrei che, per conto dell'Impero Romano che occupava Israele, riscuotevano le tasse e i tributi dal popolo per versarli nelle casse romane. La figura del pubblicano è particolarmente sviluppata dagli evangelisti Matteo e Luca. L'attenzione di Matteo è più che comprensibile, visto che lui stesso era un pubblicano prima di seguire Gesù. Quella di Luca invece ha uno scopo ben preciso. Essi sono una categoria di persone considerate "senza speranza", per le quali cioè, neppure Dio può far nulla.

Il loro peccato, secondo il comune modo di pensare, non può conoscere redenzione. Essi, ebrei, approfittano dell'invasione sacrilega dei romani per un loro personale vantaggio. Gesù ribalta questo modo di vedere chiamandoli tra i propri discepoli, sedendo a tavola con loro, convertendoli, dedicando loro attenzioni che suscitano scandalo. Come scrive sant'Agostino: «Dio non odia nulla di ciò che ha creato; non disprezza nessun uomo, ma vuole che tutti siano salvati» (Enarrationes in Psalmos, 85,7). Luca sottolinea questo aspetto con lo scopo di dare una speranza proprio ai peccatori più peccatori. Ma procediamo un passo alla volta. Entrambe salgono al Tempio simbolo della sacralità per antonomasia della fede ebraica; segno della presenza viva di Dio. Anche il "salire" fa pensare ad un luogo posto in alto; una collina o un monte che nella Scrittura rimandano a luoghi dove Dio abita e incontra gli uomini. E, come scrive Italo Calvino: «La vera umiltà consiste nell'essere capaci di salire molto in alto senza dimenticare mai da dove si è partiti» (Le città invisibili).

  • L'egolatria del fariseo

Già da come viene presentata la postura del fariseo – "lo stare in piedi" – è indicativo della sua personalità e spiritualità. Luca nulla lascia al caso o alla banalità: ogni parola è misurata, pesata, dettagliata e indicativa di altro. In questo caso, la postura è rivelativa di un formalismo religioso senza amore e senza fede; paradossalmente, senza Dio. Come ammonisce il profeta Isaia: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Is 29,13), sottolineando il rischio di una religiosità solo esteriore. Si potrebbe ricordare anche la parola di Gesù: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l'esterno del bicchiere e del piatto, mentre all'interno sono pieni di rapina e intemperanza» (Mt 23,25).

Lo spiega ulteriormente la preghiera che il fariseo fa "pensando tra sé". Qui occorre notare un problema di traduzione, che non ci permette di entrare dentro il significato originale delle parole di Luca; detto così sembrerebbe che il fariseo stia pregando nel suo intimo, cioè senza esprimersi ad alta voce, come in una sorta di preghiera mentale. Il testo greco invece utilizza un'espressione diversa, che si potrebbe tradurre così: "il fariseo stando in piedi pregava rivolto verso se stesso". Cioè lo sguardo, il cuore e la mente del fariseo non sono rivolti al Signore ma a se stesso. Come osserva sant'Agostino: «Non c'è nulla di più contrario alla preghiera che la superbia. La preghiera è voce dell'umiltà» (Enarrationes in Psalmos, 85,7).

È un uomo che, usando termini attuali, anche psicologici, dimostra autoreferenzialità e narcisismo. Tale preghiera inizia con un ringraziamento, una berakah, ma poi passa al confronto con ladri o peccatori e adulteri. Il fariseo fondamentalmente non adora e ringrazia Dio; piuttosto adora se stesso per l'osservanza minuziosa delle tradizioni che compie. «Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18,14), dirà proprio Gesù a conclusione della parabola, ribaltando la logica mondana dell'autoreferenzialità. E come scrive Alessandro Manzoni: «Il cuore dell'uomo si innalza nella preghiera, ma solo chi si riconosce debole trova grazia» (I Promessi Sposi, cap. XXXVI). Papa Francesco ricorda: «La preghiera di chi si crede giusto non arriva a Dio, la preghiera dell'umile apre la porta del suo cuore» (Omelia, 27 ottobre 2019).

Egli si sente giusto, perfetto tanto che disprezza tutti gli altri uomini che sono adulteri, peccatori e ladri. Lui non rientra in questa categoria. Addirittura, alla presenza dell'Altissimo, è sprezzante anche nei riguardi del pubblicano entrato con lui. È un uomo profondamente malato di egoite. Come scrive Gregorio Magno: «La superbia è madre e radice di tutti i vizi» (Moralia in Iob, XXIII, 13), e in lui questa radice soffoca ogni apertura al prossimo e a Dio.

È ermeticamente chiuso alla lode autentica che include anche l'umanità ferita e sbandata. In lui la speranza è morta. La preghiera falsa e ipocrita idolatra se stessi, mentre la preghiera vera si china dinanzi al suo Dio che accoglie il grido dell'umile. Come ha scritto Sant'Agostino: «Non c'è nulla di più contrario alla preghiera che la superbia. La preghiera è voce dell'umiltà» (Enarrationes in Psalmos, 85,7).

  • L'adorazione umile e vera

A differenza del fariseo il pubblicano, in questa narrazione parabolica, si ferma a distanza, non osa nemmeno alzare gli occhi al cielo e dal suo cuore sgorga una semplicissima preghiera chiedendo a Dio di aver pietà di lui. Anche qui Luca mette in evidenza la postura del pubblicano rivelativa di un atteggiamento spirituale umile, vero, autentico; non giudicante ma adorante. Riconosce la sua grande miseria e di essere un grande peccatore. Come recita il Salmo: «Un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi» (Sal 51,19). Ricorda il grido degli infermi del Vangelo: Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di noi (cfr. Lc 18,38). Una frase semplicissima ma sentitamente autentica. Sant'Agostino osserva: «Dio resiste ai superbi, ma dà la sua grazia agli umili» (cfr. Epistola 194, 3; cfr. anche 1Pt 5,5).

Dinanzi alla grandezza, Santità e onnipotenza di Dio non c'è uomo che possa accampare diritti di santità per le opere che compie; come ricorda san Paolo: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio» (Rm 3,23). Il pubblicano è consapevole della sua grande miseria dinanzi alla immensità della gloria di Dio e non può far altro che battersi il petto e invocare perdono. Lui è l'antitesi del fariseo egolatra ma anche il prototipo dello stile di vita spirituale di ogni credente. Come scrive Dante Alighieri: «Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Inferno, XXVI, 118-120), a ricordare che la vera grandezza dell'uomo sta nell'umiltà di riconoscere la propria condizione e tendere verso il Bene. Dio è troppo grande, troppo in alto, troppo giusto, assai santo perché l'uomo possa dichiararsi meritevole ai suoi occhi.

La distanza è sempre infinita, l'abisso è incolmabile. Ecco perché bisogna accostarsi al suo trono di grazia solo alla maniera del pubblicano, perché nel cuore, in fondo, siamo pubblicani: O Dio, abbi pietà di me, peccatore (Lc 18,13). Come scriveva Papa Francesco: «Dio non si stanca mai di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere la sua misericordia» (Evangelii Gaudium, 3). Questa sua preghiera fa rinascere la speranza.

  • La preghiera del povero attraversa le nubi

La vera fede è umile, docile, mite. Riconosce l'ineffabilità e la gloria immensa di Dio e la miseria della propria persona. Ci si sente e si vede, spiritualmente parlando, come pulviscoli e sabbia agitata dal vento dinanzi a Colui il cui solo nome è santo. Come affermava Isaia: «Tutta la nostra giustizia è come un abito sporco» (Is 64,5), a sottolineare la sproporzione tra la grandezza divina e la fragile condizione umana. Sant'Agostino, interprete profondo dell'umiltà cristiana, scrive: «Quanto più uno si innalza, tanto più deve abbassare il cuore dinanzi a Dio» (Enarrationes in Psalmos, 130,2).

L'uomo e la donna umili appartengono a quella categoria di persone che la Scrittura designa come gli 'anawîm' (i poveri di Jahvè). "Questa parola, che ricorre 21 volte nell'Antico Testamento, sempre al plurale (eccetto un solo caso), indica letteralmente «chi è curvo», non solo sotto l'oppressione dei prepotenti o sotto il peso della povertà, ma soprattutto nell'atteggiamento di adorazione di Dio. I 'poveri di Jahvè' sono infatti coloro che vincono ogni tentazione di superbia, orgoglio e autosufficienza. Questa spiritualità si sviluppò durante l'esilio babilonese e il periodo post-esilico, in una situazione in cui Israele sperimentava la dispersione, la schiavitù, la miseria. Trovandosi in queste condizioni di estrema precarietà, il popolo comprese sempre più l'esigenza di un'apertura totale a Dio, unico rifugio e speranza capace di trascendere la realtà contingente." In tal senso, il Salmista esclama: «Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato, egli salva gli spiriti affranti» (Sal 34,19). Come scrive Dietrich Bonhoeffer: «Solo chi è stato toccato dalla misericordia di Dio può davvero comprendere la propria povertà spirituale» (Discipleship), e come afferma anche Simone Weil: «Solo chi si riconosce povero davanti a Dio può ricevere la vera ricchezza dello Spirito» (Attesa di Dio).

I piccoli, gli umili, costituiscono il vero popolo di Dio e la povertà diventa luogo di incontro con Lui: sulla via della povertà si muovono i passi della fede e dell'abbandono all'amore e alla provvidenza divina. San Paolo ci ricorda: «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10), perché la forza del credente non nasce dalla propria autosufficienza, ma dalla fiducia in Dio. Come testimonia anche Charles de Foucauld: «Più si è poveri, più si è simili a Gesù» (Lettere dal deserto). Mosè è la figura che nell'Antico Testamento viene caratterizzata proprio dall'aggettivo 'anaw' (umile). Racconta il libro dei Numeri che Mosè «era un uomo molto umile, più di qualunque altro sulla faccia della terra» (Nm 12,3). E come ricorda Dante Alighieri: «La tua magnificenza in me custodi, sì che l'anima mia, che fatta è tua, piacente a te dal corpo si disnodi» (Paradiso, XXXIII, 34-36), a sottolineare la grandezza dell'umile che si affida totalmente a Dio.

Il povero di Dio non è solo colui il quale manca del giusto sostentamento per la fame terrena. Povero è anche colui che nulla si attende dagli uomini ma tutto aspetta da Dio con fiducia, sapendo che il suo grido non rimarrà inascoltato, come esprime il Magnificat di Maria: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52). Sant'Ambrogio osserva: «L'umiltà è la scala per salire al cielo; la superbia, la fossa per cadere nell'abisso» (Expositio Evangelii secundum Lucam, 1, 53).

Riconosce la sua totale dipendenza dal Signore. Non giudica; non condanna; non guarda ai peccati altrui ma è tutto intento, come nel caso del pubblicano, a riconoscere la propria colpa e consegnarla a Colui che tutto conosce fin nelle giunture delle ossa. Gesù stesso nel Vangelo di Matteo proclama solennemente: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3). Il pubblicano viene presentato come un "possessore di una coscienza". Tre sono i suoi movimenti: si ferma a distanza; non osa alzare gli occhi; si batte il petto. Egli sa guardare nell'intimo del suo cuore e lì scopre di non essere a posto con il Signore e per questo, nella sua grande umiltà, gli chiede elemosina (abbi pietà di me), perdono e misericordia, riconoscendosi dinanzi a Lui peccatore. Come ricorda San Giovanni Crisostomo: «Non vi è nulla che allontani tanto la grazia quanto l'orgoglio, nulla che la attiri quanto l'umiltà» (Homiliae in Matthaeum, 15,3).

È l'umiltà che vige nel pubblicano! Una canzone di Fiorella Mannoia recita così: "l'umiltà apre tutte le porte". E davvero, come scrive Seneca: «Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare» (Epistulae Morales ad Lucilium, 71,3), la grandezza dell'uomo si misura nel tendere verso Dio, riconoscendo la propria piccolezza e affidandosi alla Sua misericordia. Quante volte anche il Santo Padre Francesco esorta nelle sue catechesi a rivolgere la richiesta di perdono al Signore dicendo che Dio non si stanca mai di perdonare. Siamo noi che ci stanchiamo (Evangelii Gaudium, 3).

  • L'umiltà che giustifica

Anche nell'ultimo versetto del vangelo dove Gesù inserisce il messaggio della parabola proclamata, troviamo due opposti imperativi: il fariseo dopo la sua preghiera non tornò giustificato; il pubblicano sì. In questo contrasto si riflette il cuore dell'annuncio cristiano, come afferma il Signore: «Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18,14). È questa prospettiva antitetica di esaltazione/umiliazione che fa la differenza, e diventa il fulcro della spiritualità evangelica. Sant'Agostino, maestro dell'umiltà, ci ricorda: «Non c'è via più sicura per la grazia che l'umiltà» (De natura et gratia, 36,42), mentre il salmista proclama: «Un cuore affranto e umiliato tu, o Dio, non disprezzi» (Sal 51,19).

Questo tema è caro all'evangelista Luca che, da un lato, ci rivela tutta la misericordia viscerale di Dio compiuta in Cristo Gesù («Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso», Lc 6,36), e dall'altro fa comprendere al lettore che il Regno di Dio non è per chi conduce tutta la sua vita nell'autoreferenzialità o, come prima abbiamo detto, nell'egolatria, anche se spesso usa la religione come maschera. Né tampoco per chi vuole accampare diritti su Dio elencando i suoi meriti, poiché come afferma San Paolo: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio» (Rm 3,23). Dietrich Bonhoeffer, teologo contemporaneo, sottolinea: «Solo chi è stato toccato dalla misericordia di Dio può davvero comprendere la propria povertà spirituale» (Discipleship).

È l'atteggiamento del cuore umile il passaporto sicuro e vidimato autorevolmente per il perdono oggi e per l'eternità beata un domani. «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3), dice Gesù nel discorso della montagna, e San Giovanni Crisostomo aggiunge: «Nulla attira tanto la grazia quanto l'umiltà» (Homiliae in Matthaeum, 15,3). Il Regno di Dio appartiene ai semplici, ai piccoli, ai poveri; a tutti coloro i quali riconoscono che solo Gesù è il Signore; e ogni cosa che possiamo dire o fare di buono è frutto della sua grazia di cui è piena la terra. Dante Alighieri, nella sua visione poetica e teologica, ammonisce: «Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Inferno, XXVI, 118-120), invitando ciascuno a riconoscere la propria piccolezza nella tensione verso il Bene.

Ma non solo! L'habitus dell'umile guarda ogni altro fratello o sorella, uomo o donna, di ogni razza, religione, sesso, con gli occhi di un perdonato che a sua volta diviene un perdonante. Come scrive Papa Francesco: «Dio non si stanca mai di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere la sua misericordia» (Evangelii Gaudium, 3). Ecco cosa deve diventare la nostra vita: una danza di umiltà puntando tutto su un unico orizzonte: l'eternità. San Gregorio Magno afferma: «La vera umiltà consiste nel conoscere la propria debolezza e attribuire a Dio ogni bene» (Moralia in Iob, XXII, 24).

Un po' come Paolo oggi ricorda al suo carissimo Timoteo: "Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione." (2Tm 4,6-8). Seneca, nella saggezza latina, ricorda: «Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare» (Epistulae Morales ad Lucilium, 71,3), invitando ciascuno a fissare lo sguardo sull'orizzonte che salva.

Così, la semplicità spirituale e l'umiltà diventano il fondamento di una fede autentica, capace di spalancare le porte della misericordia divina e di orientare la vita verso la luce dell'eternità. Lasciamo che la nostra preghiera sia sincera, povera e umile, e scopriremo che «l'umiltà apre tutte le porte» (Fiorella Mannoia), e che, come diceva Sant'Ambrogio, «l'umiltà è la scala per salire al cielo; la superbia, la fossa per cadere nell'abisso» (Expositio Evangelii secundum Lucam, 1, 53). Così saremo davvero figli del Dio della misericordia, pellegrini verso la corona della giustizia, e testimoni di una speranza che non delude.

Conclusione

Alla fine, il Vangelo di oggi ci chiede di scegliere da che parte stare: dalla parte dell'orgoglio che separa o dell'umiltà che unisce. Il fariseo, chiuso nella sicurezza di sé, non lascia spazio a Dio; il pubblicano, invece, aprendosi al perdono, lascia che Dio entri e lo rinnovi. È in questo passaggio che si decide la qualità della nostra fede.
Pregare non significa presentare a Dio il registro dei nostri meriti, ma offrirgli la verità della nostra vita: nuda, fragile, ma sincera. La salvezza non nasce dalla perfezione, ma dall'umiltà di chi riconosce di aver bisogno d'amore. Il Signore guarda al cuore, non alla facciata; giustifica chi si fida di Lui, non chi si vanta di sé. Ogni volta che un uomo o una donna si batte il petto e dice con sincerità: "O Dio, abbi pietà di me peccatore", il cielo si apre e la grazia discende. Il pubblicano torna a casa giustificato perché ha portato nel tempio non la sua bravura, ma la sua verità. Anche noi possiamo tornare a casa giustificati, se lasceremo che la nostra preghiera diventi spazio di misericordia.
L'umiltà, allora, non è debolezza, ma forza che libera; non è rinuncia, ma porta spalancata alla grazia. Chi si mette all'ultimo posto scopre che lì, già da sempre, lo attende Dio. E in quel silenzio umile e adorante si compie il miracolo della fede: la creatura ritrova il suo Creatore, il peccatore ritrova la pace, e la speranza torna a brillare nel cuore.

Vergine Maria,
la tua grande umiltà
è cantata ed esaltata
nei cieli e sulla terra,
per ogni luogo e per ogni generazione.
Per questo Dio ha fatto in te grandi cose.
Tu che sei la tutta bella, la tutta pura,
la tutta santa; l'Immacolata,
ricorda a noi, spesso arroganti,
saccenti, superbi, adoratori dell'io,
che siamo tutti peccatori
bisognosi dell'infinito amore di Tuo Figlio Gesù.
Dunque o Madre, prega per noi peccatori,
adesso e nell'ora della nostra morte. Amen

don Nicola De Luca