LA SPERANZA OLTRE LA MORTE

31.10.2025

DOMENICA 02 NOVEMBRE 2025

COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI (MESSA III)

Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Mt 5,1-12a


Introduzione

«Laudato si', mi' Signore, per sora nostra morte corporale,

da la quale nullu homo vivente pò scappare…

Beati quelli che trovarà ne le tue santissime voluntati,

ka la morte secunda no 'l farrà male».

(San Francesco di Assisi, Cantico delle creature)

Così, quasi chiudeva il mirabile inno del poverello d'Assisi. Dopo aver lodato Dio per ogni creatura, egli osa benedire sorella morte. Quella che per ogni uomo e donna è minaccia e timore, nella fede diventa soglia. Tutti, prima o poi, la incontriamo: nella carne di chi amiamo o nella nostra stessa fragilità. Eppure la Parola oggi spalanca un orizzonte: la speranza oltre la morte — non un'illusione, ma una Persona, il Risorto. Anche la letteratura talvolta grida questo bisogno: «Tutti dobbiamo morire, tutti quanti, che circo!…» scriveva Bukowski. Eppure la fede ci impedisce di essere "divorati dal nulla": ci riconsegna al Senso.

San Francesco, nel suo Cantico, ci insegna a guardare la morte non come la fine definitiva, ma come parte del disegno divino, una realtà che, pur dolorosa e misteriosa, può essere accolta con gratitudine e fiducia. Benedire sorella morte significa riconoscere che la nostra esistenza non si esaurisce nel limite terreno: la fede apre alla possibilità di una vita che continua, di una comunione che non si spezza. È per questo che il cristiano, pur attraversando il dolore della perdita, può nutrire una speranza diversa, più profonda, che nasce dall'incontro con il Cristo risorto.

La morte, che la cultura contemporanea tende spesso a rimuovere o a nascondere, nel messaggio biblico viene illuminata da una luce nuova: quella dell'amore che vince ogni paura, della promessa di una pace che non è assenza, ma presenza custodita. La Parola oggi ci invita a non cedere all'angoscia o al nichilismo, ma a lasciarci guidare dalla fiducia che siamo nelle mani di Dio, come dice il libro della Sapienza. Non siamo abbandonati al nulla, ma affidati a una presenza che ci accompagna anche oltre il confine della vita terrena. La letteratura, come accennato con Bukowski, spesso riflette la percezione universale della morte come una realtà inevitabile e, talvolta, assurda. Tuttavia, la fede cristiana trasfigura questa esperienza: non la nega, ma la interpreta come passaggio, come soglia verso il compimento della nostra vocazione umana. In questo senso, la speranza oltre la morte non è una fuga dalla realtà, ma un ancoraggio profondo al senso ultimo della nostra esistenza, fondato sulla promessa di Dio e sulla vittoria del Risorto.

1) Nelle mani: la custodia di Dio più forte del nulla

«Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio» (Sap 3,1).

Qui la Scrittura non evoca un'anima disincarnata: nefesh (נֶפֶשׁ) è la vita intera. E la resa greca en cheirì Theou (nelle mani di Dio) dice tenerezza e appartenenza: non c'è caduta oltre le sue dita. Sant'Ambrogio: «La morte è sonno del corpo, non distruzione della persona» (De excessu Satyri).

Per questo, anche quando «agli occhi degli stolti» sembra sconfitta (Sap 3,2), i giusti «sono nella pace» (3,3): non assenza, presenza custodita.

«Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio» (Sap 3,1). Questa affermazione della Scrittura trasmette un'immagine di profonda sicurezza e intimità: non si tratta di un'anima separata dal corpo, ma della totalità della persona, della nefesh, che in ebraico indica la vita nella sua pienezza, con tutte le sue relazioni, emozioni e desideri. La traduzione greca, en cheirì Theou (ἐν χειρὶ Θεοῦ), sottolinea la delicatezza e la protezione: essere nelle mani di Dio significa essere avvolti da una cura che non conosce abbandono, una appartenenza che supera il limite della morte.

Questa visione è ripresa da Sant'Agostino, che nelle Confessioni scrive: «Tu ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (Conf. I,1,1). Il riposo nelle mani di Dio non è semplice immobilità, ma compimento della nostra vocazione più profonda. La morte, che agli occhi degli uomini può sembrare una sconfitta, in realtà è, come dice Sant'Ambrogio, «sonno del corpo, non distruzione della persona» (De excessu Satyri). Il cristiano, dunque, non teme la dissoluzione, ma confida che la propria identità si compie e si custodisce in Dio.

La Bibbia riprende questa prospettiva anche nel Vangelo di Giovanni, dove Gesù afferma: «Le mie pecore ascoltano la mia voce; io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le strapperà dalla mia mano» (Gv 10,27-28). Qui la "mano" di Dio diventa segno di una fedeltà che attraversa la morte, garantendo una comunione che non può essere interrotta.

Un grande teologo contemporaneo, Jürgen Moltmann, riflette sulla speranza cristiana dicendo che «la risurrezione di Cristo non è soltanto la risposta al problema della morte, ma la promessa che la vita sarà pienamente restaurata e trasfigurata» (Teologia della speranza). Nelle mani di Dio, pertanto, non c'è solo custodia, ma anche promessa di compimento e di trasfigurazione. Nulla di ciò che è stato amato e vissuto va perduto, ma viene portato a pienezza.

Infine, la letteratura stessa si fa eco di questa fiducia: in Fratelli Karamazov Dostoevskij scrive che «la vita è paradiso, basta saperlo vedere». Anche nel limite della morte, la fede apre gli occhi su una realtà più grande, quella di una presenza che custodisce e trasforma ogni dolore in speranza.

2) Le lacrime raccolte: l'Amore risana la memoria del dolore

La frase «Egli asciugherà ogni lacrima» (Ap 21,4) rappresenta una delle immagini più potenti della consolazione divina nella Scrittura. Il verbo greco exaleípsei (ἐξαλείψει), utilizzato dall'autore dell'Apocalisse, non si limita a descrivere un gesto di conforto superficiale: esprime l'azione di cancellare completamente ogni traccia di dolore, come se Dio stesso intervenisse a riscrivere la storia personale di ciascuno, rimuovendo il segno stesso della sofferenza. Non si tratta quindi solo di consolare, ma di una guarigione radicale, che tocca la memoria e la profondità della persona.

La frase «Egli asciugherà ogni lacrima» (Ap 21,4) rappresenta una delle immagini più potenti della consolazione divina nella Scrittura.

Il verbo greco exaleípsei (ἐξαλείψει), utilizzato dall'autore dell'Apocalisse, non si limita a descrivere un gesto di conforto superficiale: esprime l'azione di cancellare completamente ogni traccia di dolore, come se Dio stesso intervenisse a riscrivere la storia personale di ciascuno, rimuovendo il segno stesso della sofferenza. Non si tratta quindi solo di consolare, ma di una guarigione radicale, che tocca la memoria e la profondità della persona. Quando Giovanni contempla «un cielo nuovo e una terra nuova», utilizza il termine kainós (καινός), che indica una novità qualitativa, qualcosa che trasforma la realtà nella sua essenza. Non è semplicemente una novità cronologica (neos, νέος), come se si trattasse di una successione temporale, ma una trasfigurazione che investe la storia stessa, portando a compimento ciò che era imperfetto, ferito o incompleto.

Il riferimento al Cantico dei Cantici — «L'amore è forte come la morte» (Ct 8,6) — introduce una prospettiva ancora più profonda: l'amore umano, nella sua autenticità, è capace di affrontare il limite estremo della morte. In questa visione biblica, la forza dell'amore non viene annullata dalla morte, ma anzi la attraversa e la supera, diventando il principio di una nuova vita. È l'amore che resiste, che non viene distrutto, ma trasformato. Hans Urs von Balthasar, grande teologo del Novecento, afferma: «Dio non distrugge ciò che è stato amato: lo porta a compimento». Questo pensiero offre una chiave di lettura della speranza cristiana: tutto ciò che è stato vissuto nell'amore non viene dimenticato o annientato, ma custodito e portato alla sua pienezza. In Dio, il dolore e la perdita non vengono semplicemente rimossi, ma trasfigurati, integrati in una storia di salvezza che abbraccia ogni lacrima, ogni memoria ferita.

La speranza cristiana, dunque, non nega il lutto, non lo cancella con una promessa di facile consolazione. Al contrario, lo attraversa, riconoscendo che ogni sofferenza vissuta nell'amore trova in Dio la sua destinazione ultima. Nulla di ciò che è stato amato va perduto, perché la memoria stessa del dolore viene risanata: Dio raccoglie le lacrime, le trasforma in gioia, le rende parte di una storia nuova, quella del cielo nuovo e della terra nuova.

Approfondendo ulteriormente, si può dire che questa prospettiva invita il credente a vivere il dolore non come una separazione definitiva, ma come una soglia verso una comunione più profonda. Le lacrime raccolte da Dio sono il segno che nessuna esperienza è vana: ogni amore autentico, ogni relazione vissuta con sincerità, viene trasfigurata nella vita eterna. In questo modo, la fede cristiana offre una visione della storia personale e universale in cui il lutto non è una conclusione, ma un passaggio verso la pienezza della vita.

3) Uno sguardo risorto: la Beatitudine che vede Dio

«Beati i puri di cuore perché vedranno Dio» (Mt 5,8). Questa beatitudine, posta al centro del discorso della montagna, racchiude una promessa che va ben oltre una semplice ricompensa futura: indica una trasformazione profonda dell'essere umano. Il termine greco makárioi (Μακάριοι) suggerisce una felicità che scaturisce dalla comunione con Dio, non da uno stato d'animo passeggero. Come sottolinea Origene, «vedere Dio» non significa solo un'esperienza futura nell'aldilà, ma già ora, nel cammino della purificazione, si può gustare la sua presenza: «Se uno ha il cuore puro, vede le realtà spirituali, perché Dio si rivela a chi lo cerca con sincerità» (Commento a Matteo, XV, 3).

La purezza del cuore, katharoì tē kardía (Καθαροὶ τῇ καρδίᾳ), non riguarda solo la moralità, ma la limpidezza dell'intenzione e la trasparenza interiore. Nel pensiero biblico, il cuore è il centro della persona, il luogo delle decisioni e della relazione con Dio. Sant'Agostino interpreta così: «Dio si lascia vedere dai puri di cuore; non con gli occhi del corpo, ma con quelli dell'anima» (Enarrationes in Psalmos, 77, 9). Anche Gregorio di Nissa sottolinea che questa visione non è statica, ma un cammino di incessante approfondimento: «La vera visione di Dio consiste nel non stancarsi mai di desiderare di vederlo» (La Vita di Mosè).

Il verbo opsontai (ὄψονται) indica una visione dinamica, partecipata, che coinvolge tutta la persona. Non si tratta di contemplare Dio come oggetto esterno, ma di entrare nella sua prospettiva, imparando a vedere il mondo e gli altri con il suo sguardo. Karl Rahner, teologo contemporaneo, afferma: «La beatitudine promessa consiste in una partecipazione alla visione stessa che Dio ha di sé e del creato; è la comunione piena e trasformante» (Trattato fondamentale sulla fede).

Le Beatitudini, quindi, non sono soltanto annunci per il futuro, ma aprono già oggi la possibilità di una vita "risorta", capace di accogliere la luce di Dio anche nelle ombre della storia. Come scrive Simone Weil: «Non si arriva a Dio attraverso la fuga dal mondo, ma lasciando che il mondo sia trasfigurato dalla luce pura che viene dall'alto» (Attesa di Dio).

In questa prospettiva, la promessa di "vedere Dio" diventa invito a una continua conversione dello sguardo: a lasciarsi purificare nel profondo, per cogliere la presenza di Dio in ogni frammento di vita. Come dice il salmista: «Il tuo volto, Signore, io cerco» (Sal 27,8). E come ricorda il poeta Rainer Maria Rilke: «Essere qui è una gloria» (Elegie Duinesi), perché ogni istante può diventare trasparente all'eterno, se il cuore si apre alla luce della Beatitudine.

4) La comunione che non si spezza: i legami oltre la soglia

Quando preghiamo per i defunti, non celebriamo semplicemente la loro assenza, ma riconosciamo una presenza che si è trasformata, una continuità che va oltre la separazione fisica. Come scrive Sant'Agostino: «Coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dove erano, ma sono dovunque noi siamo» ("Confessioni"). La comunione tra vivi e defunti non si spezza con la morte, ma si trasfigura: l'amore e la relazione restano vivi, anche se in una forma diversa. Nella fede cristiana, questa comunione è radicata nella convinzione che nulla può separarci dall'amore di Dio; neppure la morte riesce a interrompere il legame profondo che unisce tutti coloro che hanno amato e sono stati amati. Come afferma San Paolo: «Chi ci separerà dall'amore di Cristo?» (Rm 8,35).

Pregare per i defunti significa affidare a Dio la memoria e il destino di chi ci ha lasciati, nella certezza che la morte non è la fine di tutto, ma un passaggio verso una pienezza nuova. In questo orizzonte, la speranza cristiana si nutre della promessa che la vita non si esaurisce qui e ora: ciò che abbiamo vissuto nell'amore trova compimento e senso nella comunione eterna con Dio. Il lutto, così, non è una frattura definitiva, ma una soglia che invita a guardare oltre, a credere che l'incontro non è solo un ricordo, ma una realtà che si compirà pienamente. Come scrive Hans Urs von Balthasar: «Dio non distrugge ciò che è stato amato: lo porta a compimento».

La preghiera diventa allora un atto di affidamento e di amore che mantiene vivi i legami, custodisce la memoria e la apre alla speranza. Anche nella sofferenza della separazione, la fede invita a riconoscere che ogni addio può trasformarsi in attesa fiduciosa di un incontro definitivo, dove nulla di ciò che è stato amato andrà perduto. In questo modo, il ricordo dei defunti si fa stimolo a vivere con maggiore profondità e consapevolezza ogni relazione, nella certezza che «l'amore è forte come la morte» (Ct 8,6), e che l'amore autentico non muore, ma si rinnova e si compie nella luce della risurrezione.

5) "Sorella" morte: la libertà dei figli nella Pasqua di Cristo

La speranza cristiana, come afferma San Paolo, «non delude» (Rm 5,5) perché è radicata nella fedeltà di Dio, che non viene mai meno alle sue promesse. Il termine greco kataischýnei (καταισχύνει) sottolinea proprio questo: la speranza non umilia, non lascia confusi, non espone alla vergogna, ma sostiene e custodisce anche nei momenti più oscuri. Essa non è un'illusione o un ottimismo ingenuo, ma una certezza fondata sull'evento della risurrezione di Cristo, che è definito «primizia di coloro che dormono» (1Cor 15,20): la sua vittoria sulla morte apre la strada a tutti, rendendo la morte stessa non più un vicolo cieco, ma un passaggio verso la pienezza della vita.

Benedetto XVI, nell'enciclica Spe Salvi, ci ricorda che la fede cristiana non si limita a custodire la memoria di ciò che è stato, ma si protende verso il futuro, verso ciò che ancora deve compiersi. La speranza, quindi, è attesa attiva e certa della vita eterna, una tensione del cuore che guarda oltre il tempo e le ferite della storia. Non è fuga, ma capacità di leggere la realtà presente alla luce di una promessa che già opera in noi: «La fede non è solo ricordare ciò che è passato, ma anticipare ciò che verrà» (Spe Salvi, 2).

Per questo motivo Papa Francesco può rivolgersi alla morte chiamandola «sorella», riprendendo la visione di San Francesco d'Assisi che nella sua umiltà e fiducia in Dio vedeva nella morte non un nemico da temere, ma una soglia da attraversare con fiducia. La morte, in questa prospettiva, non rappresenta la fine di tutto, ma il compimento di un cammino, il punto in cui l'amore vissuto si apre alla sua pienezza definitiva. Sant'Ignazio di Antiochia, affrontando il martirio, vedeva nella morte non una sconfitta, ma un'occasione per essere unito pienamente a Cristo, tanto da desiderare di essere «cibo delle belve» pur di raggiungere Dio. Questa radicalità mostra come la speranza cristiana sia capace di trasformare anche l'evento più drammatico in un'opportunità di comunione e di realizzazione.

Nel Nuovo Testamento il termine thanatos (θάνατος) non indica soltanto la morte fisica, ma ogni forma di separazione, di solitudine, di smarrimento. Cristo non evita questa condizione, ma la assume su di sé, la attraversa e la trasfigura. Come sottolinea il teologo ortodosso Olivier Clément, Gesù entra nella morte per svuotarla dal suo potere di annientamento: «Cristo, entrando nella morte, l'ha trasformata da fine a inizio, da notte a aurora» (L'altro sole). In questa luce, la morte diventa una soglia luminosa, non più una barriera insormontabile ma un luogo di incontro con Dio.

Sant'Ambrogio, riflettendo sulla morte del fratello, afferma che essa non va temuta, perché in Cristo si trasforma in via verso la vita: la morte non è più una condanna, ma un esodo verso la comunione piena. Anche la letteratura e la poesia cristiana, come nei versi di Paul Claudel, invita a guardare alla morte non come a una porta chiusa, ma a una soglia che introduce in una «casa luminosa» dove la gioia e la pace sono compiute.

L'Apocalisse, infine, proclama «Beati i morti che muoiono nel Signore» (Ap 14,13): la beatitudine promessa a chi si affida a Cristo è la certezza che nulla di ciò che è stato vissuto nell'amore andrà perduto, ma sarà portato a compimento nella luce della risurrezione.

In sintesi, la speranza cristiana non elimina il dolore della perdita, ma lo attraversa e lo trasfigura; insegna a vivere la morte non come una sconfitta, ma come un passaggio verso la comunione piena con Dio e con coloro che ci hanno preceduto. È una speranza che alimenta il coraggio di amare fino in fondo, sapendo che la vita non è assorbita dalla morte, ma la morte stessa è ormai abitata dalla Vita, quella con la "V" maiuscola. In questa prospettiva, ogni addio diventa un "a-Dio", uno slancio verso l'incontro definitivo, e la memoria dei nostri defunti si trasforma in stimolo a vivere con più autenticità, sapendo che l'amore vero non muore mai, ma si compie oltre la soglia del tempo.

6) Maria, donna dell'ultima ora: l'umano assunto nella luce

Maria ci precede nel cammino della fede e della vita, rappresentando per tutti noi una guida e un modello di piena adesione al progetto di Dio. L'Assunzione della Vergine, infatti, è molto più di un privilegio personale: è segno e promessa per ogni essere umano, perché in lei vediamo realizzato ciò che siamo chiamati a essere. Dire che la nostra carne è "capace di cielo" significa riconoscere che la nostra umanità, con le sue fragilità e bellezze, non è destinata al nulla, ma alla gloria. Maria, donna della nostra terra, è stata assunta in anima e corpo nella luce di Dio: così il suo destino diventa anche il nostro orizzonte di speranza.

Il linguaggio biblico dell'"essere portato in alto" (anelēmphthē - ἀνελήμφθη) non suggerisce una fuga dalla realtà o un distacco dalle cose del mondo, ma indica invece l'innalzamento e la trasfigurazione dell'umano, che in Dio trova la sua pienezza. Non si tratta di evadere dalle fatiche e dai limiti della vita, bensì di lasciarsi attrarre dalla luce che viene dall'alto, certi che ogni passo compiuto nella fede ci avvicina sempre più a quella comunione piena per la quale siamo stati creati.

San Gregorio di Nissa afferma con profondità: «Chi cammina verso Dio non finisce mai di andare avanti: anche la morte è un passo ulteriore nella sua infinita ascesa». Questa immagine suggerisce che l'avventura dell'uomo non conosce mai una vera fine: la vita, la morte, l'oltre-morte sono tutte tappe di un pellegrinaggio che trova in Dio la sua mèta senza fine. In questa prospettiva, anche la morte si trasforma da evento di rottura a tappa ulteriore di crescita, di elevazione, di incontro definitivo con l'Amore.

Per questo motivo, la preghiera mariana non è un semplice ornamento devozionale, ma un autentico atto di speranza. Rivolgersi a Maria significa affidarsi a colei che ha già percorso la strada che attende ciascuno di noi e che, dalla sua posizione di Madre e di sorella nella fede, ci accompagna, ci sostiene e intercede perché anche noi possiamo attraversare le soglie della vita con fiducia. Pregare Maria è un modo per radicare la nostra speranza non su illusioni, ma sulla certezza che l'amore di Dio è capace di trasfigurare ogni umanità e condurla alla sua pienezza.

Conclusione

La speranza oltre la morte non ci sottrae al pianto: ci mette una mano sulla spalla e ci spinge oltre. In Cristo risorto ogni tomba è un grembo; ogni lacrima, un seme; ogni addio, un a-Dio. E l'amore — quello vero, ricevuto e donato — non va mai perduto.

In definitiva, la fede cristiana ci invita a non negare il dolore e la fatica del distacco, ma a viverli come passaggi di un cammino più grande, dove la morte non è più una linea di confine, bensì una soglia che introduce a una nuova dimensione di esistenza. Le lacrime versate per chi ci lascia diventano semi di speranza, segni di un amore che continua a fiorire oltre il limite del tempo. Ogni addio, vissuto nella luce della risurrezione, si trasforma in un affidamento fiducioso a Dio, un lasciare andare che non è perdita, ma apertura a una comunione più profonda.

Così, la memoria dei nostri defunti non è soltanto nostalgia, ma stimolo a vivere con autenticità, certi che l'amore autentico non si spegne, ma si compie nella pienezza della vita in Dio. Sostenuti dalla testimonianza di Maria, che ci precede nell'Assunzione, e dalla promessa della risurrezione, possiamo affrontare l'ultima ora non con paura, ma con la fiducia di chi sa che, anche oltre la morte, ci attende un abbraccio più grande, quello dell'Amore eterno. In questa prospettiva, il dolore si trasfigura in coraggio, la separazione in attesa, il buio in aurora, e la storia personale di ciascuno si apre alla speranza di una vita che non finisce.

"Santa Maria, donna dell'ultima ora, disponici al grande viaggio.

Allenta gli ormeggi delle nostre paure, e accompagnaci alla soglia.

Sbriga tu stessa le pratiche del passaporto: con il perdono e la pace nel cuore.

E quando busseremo, perché si apra la porta, mostraci il tuo volto:

e fa' che, quando il corpo si addormenterà,

all'anima sia donata la gloria del Paradiso. Amen."

+ don Tonino Bello, Venerabile

don Nicola De Luca