LA SPERANZA NEL PARADOSSO DELLA REGALITÀ DI CRISTO

DOMENICA 23 NOVEMBRE 2025
XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – NOSTRO SIGNORE GESÚ CRISTO RE DELL'UNIVERSO – SOLENNITÀ - ANNO C
Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno Lc 23, 35-43
Introduzione
La Solennità di Cristo Re dell'Universo, posta a conclusione dell'anno liturgico, ci invita non a contemplare un trionfo terreno, ma a volgere lo sguardo verso il mistero della regalità di Gesù che si compie sulla Croce. Questa scelta liturgica, apparentemente paradossale, ci rivela che la sovranità di Cristo non si fonda sulla forza o sulla supremazia, bensì sull'amore che si dona e si sacrifica. È una regalità che si manifesta nella debolezza, nell'umiliazione e nel servizio, ribaltando ogni logica mondana di potere. Il Magnificat di Maria, all'inizio del Vangelo di Luca, anticipa questo capovolgimento radicale: Dio sovverte le gerarchie umane, abbassa i potenti e innalza gli umili. Non è un semplice gesto di giustizia sociale, ma la rivelazione di una nuova logica, quella del Regno di Dio, dove la grandezza si misura dalla capacità di servire e di amare senza misura.
Luca, più di ogni altro evangelista, sottolinea questo contrasto tra ricchezza e povertà, potere e umiltà, sopraffazione e servizio; il suo Vangelo è costellato di episodi in cui Gesù si schiera dalla parte degli ultimi, dei poveri, degli esclusi. Il passaggio dal κράτος (krátos), il potere che domina, alla δύναμις (dýnamis), la forza che salva, è il cuore della speranza cristiana. Non si tratta di una semplice inversione di ruoli, ma di un cambiamento profondo della prospettiva: la vera forza non è quella che opprime, ma quella che libera e salva. Gesù, sulla croce, non esercita un potere coercitivo; piuttosto, offre la sua vita per gli altri, manifestando così la potenza trasformante dell'amore. La sua regalità è segno di speranza per chi si sente escluso, per chi vive nella fragilità e nella sofferenza: proprio lì, dove il mondo vede fallimento, Dio rivela la sua gloria.
Approfondendo ulteriormente, questa festa ci interpella personalmente: siamo chiamati a riconoscere il volto di Cristo Re nei piccoli, nei poveri, nei sofferenti, e a vivere la nostra esistenza secondo la logica del Vangelo, quella della forza che salva e non che domina. La speranza cristiana, dunque, nasce e si alimenta proprio nell'accogliere questa logica invertita, che ci spinge a cercare il senso della vita non nell'affermazione di sé, ma nella capacità di amare e di farci dono, come Cristo sulla Croce. In fondo, la regalità di Gesù ci insegna che "chi perde la propria vita la ritrova" e che il vero potere è quello che si mette al servizio degli altri, per costruire un regno di pace, giustizia e misericordia.
1. Davide re e la promessa che conduce a Cristo
La prima lettura presenta l'unzione di Davide. Il popolo riconosce in lui colui che il Signore aveva scelto: «Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d'Israele». L'unzione non è solo un atto politico: è l'impegno di Dio a guidare il suo popolo attraverso un re che sia pastore. A Davide viene promessa una discendenza stabile, un regno che non finirà (2Sam 7). Tale promessa, fragile nella storia eppure tenace nella fedeltà di Dio, trova pienezza in Cristo, "Figlio di Davide" secondo la carne (Rm 1,3). Ma il suo regno non è mondano. «Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36). Cristo instaura un regno di pace, giustizia e misericordia, un regno che nasce dalla Croce. Per gli ebrei, la croce era maledizione: אָרוּר – 'ārur ("maledetto") chi pende dal legno (Dt 21,23). Per i romani, era l'esecuzione più infamante. Eppure, Dio sceglie proprio quel luogo per rivelare il suo amore. San Giovanni Crisostomo ricordava: «La Croce è il trono da cui Cristo regna e da cui non scende per non perdere nessuno».
L'unzione di Davide segna una svolta profonda nella storia di Israele: da semplice pastore, egli viene scelto per guidare il popolo come un pastore guida il suo gregge. Questa immagine del re-pastore diventa centrale nella tradizione biblica, fino a essere ripresa da Gesù stesso, che si definisce "il buon pastore" (Gv 10,11). Il gesto dell'unzione, nella cultura ebraica, non è mai solo simbolico; è segno concreto dell'azione dello Spirito di Dio che consacra, separa e invia per una missione specifica. In Davide, l'unzione prefigura una regalità che trova la sua piena realizzazione non nella potenza militare o nella gloria umana, ma nell'obbedienza al disegno di Dio e nel servizio al popolo.
La promessa fatta a Davide – una discendenza stabile e un regno che non avrà fine – attraversa i secoli come filo rosso della speranza messianica. Tuttavia, la storia di Israele è segnata da infedeltà, crisi e cadute: la promessa sembra vacillare, ma la fedeltà di Dio non viene mai meno. San Paolo, nella Lettera ai Romani (Rm 1,3), sottolinea che Gesù è "nato dal seme di Davide secondo la carne", mostrando come la promessa si compie in modo sorprendente e definitivo in Cristo, che trasforma la regalità secondo i criteri umani in una regalità secondo il cuore di Dio.
Questa regalità, però, si rivela radicalmente diversa da ogni attesa terrena. Gesù stesso lo afferma davanti a Pilato: «Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36). Il regno di Cristo non si fonda sulla forza, ma sulla verità, sulla giustizia e sulla misericordia. È un regno che nasce dalla Croce, lo strumento di morte che diventa paradossalmente segno di vita e di vittoria. Qui si manifesta il cuore del mistero cristiano: la potenza di Dio si esprime nella debolezza, la gloria nella sofferenza, la salvezza nel dono totale di sé. La croce, per gli ebrei, rappresentava la maledizione suprema: אָרוּר – 'ārur, "maledetto" chi pende dal legno (Dt 21,23). Per i romani, la crocifissione era la pena più ignominiosa, riservata agli schiavi e ai criminali. Eppure, proprio su quel patibolo, Dio sceglie di rivelare il suo amore più grande, capovolgendo ogni logica umana.
La croce diventa il luogo della kénōsis (κένωσις), dello svuotamento totale di sé che apre alla pienezza della vita. San Giovanni Crisostomo, nella sua profonda intuizione teologica, afferma che «la Croce è il trono da cui Cristo regna e da cui non scende per non perdere nessuno». Questa immagine ci invita a contemplare la regalità di Gesù non come dominio, ma come prossimità e salvezza: Egli rimane sulla croce per amore, per abbracciare ogni uomo e ogni donna, soprattutto chi si sente perduto o abbandonato. La sua regalità è, dunque, servizio, dono e misericordia senza limiti, una chiamata per ciascuno di noi a seguire la stessa logica, lasciandoci trasformare dalla forza che salva e non che domina.
2. Il Golgota: teatro di disumanità e luogo di rivelazione
Umanamente parlando, Gesù muore come il peggiore dei criminali: punito crudelmente, solo, tradito. Il Golgota diventa un teatro di disumanità:
il popolo osserva,
i soldati deridono,
i capi religiosi insultano.
Tutto sembra perduto, come se l'oscurità avesse vinto definitivamente sulla luce. Eppure, proprio lì, si compie il mistero dello svuotamento: il Figlio si abbassa fino all'estremo, e nel suo abbassamento si rivela la pienezza della salvezza, come dirà san Paolo (Fil 2,6-11). Sant'Ireneo afferma che «la gloria di Dio è l'uomo vivente». E proprio sul Golgota questa gloria appare nel modo più inatteso: la vita nasce dentro la morte, l'amore dentro il rifiuto. Approfondendo ulteriormente, il Golgota rappresenta il punto di massima tensione tra la brutalità umana — che in ebraico si potrebbe esprimere con il termine חמס (ḥāmas), "violenza" — e la misericordia divina. Qui, il verbo latino crucifigere ("inchiodare alla croce") assume tutta la sua drammaticità: Gesù è abbandonato, tradito da chi lo aveva seguito, e la sua solitudine risuona nelle parole aramaiche che pronuncia: «אֵלִי אֵלִי לָמָה שְׁבַקְתַּנִי – 'Eli, 'Eli, lamà shevaqtàni?» ("Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?", Mt 27,46), citando il Salmo 22 e immergendo la sua sofferenza nella preghiera del giusto oppresso.
La kénosi non è solo annientamento, ma scelta consapevole di amare fino in fondo, di svuotarsi per accogliere l'altro. In questo svuotamento, si realizza la pienezza della salvezza: il Figlio non trattiene nulla per sé, ma si dona interamente, diventando, secondo la logica paradossale del Vangelo, "maledetto" agli occhi del mondo, ma benedetto agli occhi di Dio. Come scrive san Paolo: «Cristo Gesù… svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo».
Sul Golgota, la morte non ha l'ultima parola: il rifiuto si trasforma in accoglienza, l'inimicizia in riconciliazione. Qui si compie il disegno di Dio, espresso nella parola greca σωτηρία (sōtēría), "salvezza", che non è solo liberazione dalla morte, ma partecipazione alla vita divina. Così il Golgota, da luogo di disumanità (ἀπανθρωπία – apanthrōpía), diventa il luogo della rivelazione: la croce si trasforma da strumento di tortura in trono regale, da simbolo di vergogna in segno di speranza. In questo paradosso si radica la fede cristiana, che vede nella debolezza di Cristo la forza che salva, e nella sua morte la nascita di una vita nuova per tutta l'umanità. Dirà san Paolo: «Cristo Gesù… svuotò sé stesso, assumendo la condizione di servo».
Gesù è abbandonato, tradito da chi lo aveva seguito, e la sua solitudine risuona nelle parole: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46), citando il Salmo 22 e immergendo la sua sofferenza nella preghiera del giusto oppresso. La kénōsis (κένωσις) non è solo annientamento, ma scelta consapevole di amare fino in fondo, di svuotarsi per accogliere l'altro. Così il Figlio non trattiene nulla per sé, ma si dona interamente, diventando, secondo la logica paradossale del Vangelo, "maledetto" ('ārur, אָרוּר, Dt 21,23) agli occhi del mondo, ma benedetto agli occhi di Dio. Come afferma Jürgen Moltmann: «La croce è il luogo dove Dio si fa solidale con chi soffre, dove la speranza nasce proprio là dove tutto sembra perduto». La gloria divina si manifesta pienamente nell'uomo vivente, in colui che, attraverso la morte, riceve la vita nuova. Sul Golgota, la morte non ha l'ultima parola: il rifiuto si trasforma in accoglienza, l'inimicizia in riconciliazione. Qui si compie il disegno di Dio, espresso nella parola greca sōtēría (σωτηρία), "salvezza", che non è solo liberazione dalla morte, ma partecipazione alla vita divina. Come scrive Dietrich Bonhoeffer: «Dio sulla croce è il Dio che si dona, che si lascia respingere e tuttavia accoglie, che vince proprio nella sconfitta». Così il Golgota, da luogo di disumanità (apanthrōpía, ἀπανθρωπία), diventa il luogo della rivelazione (apokálypsis, ἀποκάλυψις): la croce si trasforma da strumento di tortura in trono regale, da simbolo di vergogna in segno di speranza. In questo paradosso si radica la fede cristiana, che vede nella debolezza di Cristo la forza che salva (dýnamis, δύναμις), e nella sua morte la nascita di una vita nuova per tutta l'umanità.
3. I due malfattori: il cuore umano davanti a Dio
Ai lati di Gesù ci sono due malfattori. Luca ce li presenta come specchi dell'animo umano. Il primo insulta, pretende un miracolo immediato. La sua voce richiama la tentazione del deserto: «Se sei Figlio di Dio…» (Mt 4,3). Un cuore che non cerca Dio, ma un potere utile. Qui il termine greco πειράζω (peirázō), "mettere alla prova", richiama la tentazione, ovvero il desiderio di sottomettere Dio ai propri bisogni, riducendo la fede a strumento di utilità personale. Si tratta di una fede condizionata, che si nutre di σημεῖον (semèion), il "segno" richiesto come prova, e non della relazione autentica con Dio. Il secondo malfattore, invece, apre uno spiraglio. Riconosce la sua colpa, proclama l'innocenza di Gesù e pronuncia una delle invocazioni più luminose del Vangelo: «Gesù, ricordati di me». Qui il verbo μνησθῆναι (mnēsthēnai), "ricordare", ha una profondità biblica: nella Scrittura, il "ricordo" di Dio non è mai solo memoria, ma azione salvifica e fedeltà all'alleanza. Il malfattore chiede di essere incluso in questa memoria efficace che salva. Questa parola è speranza pura. La speranza, in ebraico, è תִּקְוָה – tiqvàh, una "corda", un filo teso che ti sostiene quando tutto sembra spezzarsi. Il termine tiqvàh deriva dalla radice קוּה (qavah), "attendere", che richiama l'idea di una tensione positiva verso il futuro, una fiducia che si affida e si lascia sorreggere da Dio anche nell'ora più buia.
San Basilio diceva: «La confessione apre la porta, e Dio entra». In greco, il termine ἐξομολόγησις (exomologēsis), "confessione", indica sia il riconoscimento della propria colpa sia la lode a Dio che accoglie e trasforma. È un atto che scioglie i nodi del cuore e apre lo spazio alla grazia. Come afferma Karl Barth: «La speranza cristiana è fondata non sulle nostre possibilità, ma sulla fedeltà di Dio che opera anche nell'impossibile». E Dietrich Bonhoeffer ricorda: «Solo chi grida per gli ebrei può anche cantare il gregoriano», sottolineando che la fede autentica nasce dall'incontro tra la fragilità umana e la misericordia divina. E come canta Leonard Cohen in Anthem: «There is a crack in everything, that's how the light gets in». La crepa del cuore del buon ladrone diventa la via attraverso cui entra la luce del Crocifisso. In questa immagine si può cogliere il senso della luce che nella Bibbia simboleggia la presenza divina che rischiara le tenebre dell'uomo. La ferita non è solo segno di sofferenza, ma anche apertura al dono, come accade nella croce, che trasforma la morte in vita.
4. Il paradosso della Croce: il trono di un Re diverso
Gesù risponde al malfattore con parole che ribaltano ogni logica umana: «Oggi sarai con me nel Paradiso». "Oggi" – σήμερον – sḗmeron – senza rinvii, senza condizioni. Questo "oggi" non è soltanto una promessa futura, ma una realtà che irrompe nel presente: come insegnano i Padri della Chiesa, il tempo di Dio è il kairós (καιρός), il tempo opportuno in cui la salvezza si compie. La misericordia – chesed (חֶסֶד) in ebraico, amore fedele e gratuito – non attende, non si limita a rimandare, ma si dona nell'istante stesso della supplica. Qui si manifesta la logica paradossale del Regno: il peccatore pentito riceve immediatamente ciò che era ritenuto impossibile secondo la giustizia umana.
Il trono di Cristo è la Croce: un trono su cui non si domina, ma da cui si ama; un trono da cui non scende per salvare sé stesso, ma su cui resta per salvare noi. Come scrive Paolo: «Cristo Gesù, pur essendo nella forma di Dio, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma svuotò sé stesso» (ἐκένωσεν ἑαυτόν, Fil 2,7). Questa kenosi (κένωσις), questo "svuotamento", è la via regale di Dio, che regna donando tutto sé stesso. Ed è proprio qui che si comprende un altro aspetto decisivo della regalità di Cristo: Cristo Gesù, pur essendo Re, non "usa" né "abusa" mai del suo potere. Non sfrutta, non strumentalizza, non tratta nessuno come cosa o come mezzo, ma come ciò che siamo realmente: persone amate infinitamente, teneramente e follemente "usque effusionem sanguinis". Figli e figlie, fratelli e sorelle per cui squarciare il cuore. In questa prospettiva, il verbo ebraico rāḥam (רָחַם) – "avere misericordia", radicato nel termine rechem, grembo materno – esprime la tenerezza viscerale di Dio, che si piega sull'uomo ferito. Il sangue che scorre dalla Croce (αἷμα – haîma) è segno di un amore che si spinge fino all'estremo (in finem dilexit eos, Gv 13,1). Per questo motivo, nessuno si inchini davanti ad alcun potere umano. Il cristiano conosce un solo inchino: quello davanti al suo Re crocifisso e risorto, al Signore della storia e del cuore.
San Giovanni Crisostomo scriveva: «La Croce è il trono regale; il Golgota è il nuovo Paradiso». Qui si rovesciano le categorie mondane: dove c'è umiliazione, Dio innalza; dove c'è morte, Dio dona la vita; dove c'è sconfitta, si cela la vittoria della agápē (ἀγάπη), l'amore che non conosce misura. La regalità di Cristo si manifesta infatti nella sua perfetta, incondizionata e amorevole obbedienza crocifissa alla volontà del Padre. È questa obbedienza che lo rende Re: non un potere che domina, ma un amore che si consegna. Come afferma l'evangelista Luca, Gesù sulla Croce si abbandona totalmente: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Πάτερ, εἰς χεῖράς σου παρατίθεμαι τὸ πνεῦμά μου, Lc 23,46). La liturgia antica usa un'espressione magnifica: «Spes contra spem» – sperare contro ogni speranza (Rm 4,18). Questo motto paolino richiama la fede di Abramo, che credette nella promessa di Dio oltre ogni evidenza.
La speranza cristiana (ἐλπίς – elpís) nasce proprio dove tutto sembra perduto, e si nutre della fiducia che Dio può trarre vita dalla morte. Romano Guardini osserva: «Nella Croce Dio prende sul serio la sofferenza dell'uomo». Ed è qui che nasce la speranza cristiana: dalla ferita che diventa grazia. Anche Charles Péguy, nel Portico del mistero della seconda virtù, scriveva: «La speranza vede ciò che non è ancora e che sarà», mostrando come il cristiano vive del miracolo quotidiano di una luce che precede l'alba. In sintesi, la risposta di Gesù al buon ladrone – «σήμερον μετ' ἐμοῦ ἔσῃ ἐν τῷ παραδείσῳ» ("Oggi sarai con me nel Paradiso", Lc 23,43) – è la rivelazione suprema di una regalità che non risiede nella forza, ma nella capacità di amare fino all'estremo, di accogliere e perdonare, di trasformare la morte in vita. È la regalità del "Dio con noi" (Emmanu-El – עִמָּנוּ אֵל), che fa della Croce il segno eterno di una speranza che non delude (οὐ καταισχύνει, Rm 5,5).
Conclusione
Il Buon Ladrone, noto anche come Dismas secondo la tradizione, ci consegna una delle preghiere più essenziali e profonde della fede cristiana: «Gesù, ricordati di me». Questa invocazione, pronunciata nel momento più buio della sua vita, rappresenta il vertice della fiducia e dell'abbandono umano nelle mani di Cristo. Non si tratta di una richiesta articolata o di una professione teologica complessa, ma di una supplica che nasce dalla consapevolezza della propria fragilità e dal desiderio di essere accolti dalla misericordia divina.
In queste poche parole si racchiude tutto il dramma e la grandezza dell'esperienza cristiana: la fede che si fa umile riconoscimento dei propri limiti, la speranza che osa rivolgersi a Dio anche quando tutto sembra perduto, la resa fiduciosa che si affida non ai propri meriti, ma alla bontà di Cristo. Il Buon Ladrone diventa così il primo santo canonizzato dalla stessa parola di Gesù, non perché sia stato perfetto, ma perché ha saputo lasciarsi perdonare. Questo dettaglio è profondamente rivoluzionario: la santità non è prerogativa di chi non sbaglia mai, ma di chi si lascia raggiungere dalla grazia e accoglie il perdono con cuore sincero.
Con la memoria del Buon Ladrone si conclude l'anno liturgico, quasi a voler suggerire che il cammino della Chiesa e di ogni credente trova compimento non nella perfezione umana, ma nella speranza che nasce dalla Croce. È una speranza paradossale, che si fonda su un Re che non si impone con la forza, ma si dona totalmente; su un Dio che non esclude nessuno e che, anzi, fa dell'ultimo il primo cittadino del suo Regno. La Croce, da strumento di condanna, diventa così il trono della misericordia, il luogo dove la morte viene trasformata in vita e la disperazione in speranza.
La speranza cristiana, dunque, non è un'illusione o una fuga dalla realtà, ma la certezza che l'amore di Cristo è più forte di ogni male e di ogni fallimento. Cristo Re trionfa non dall'alto di un trono d'oro, ma dal legno della Croce, abbracciando la condizione umana fino in fondo e rispondendo al grido di chiunque, come il Buon Ladrone, si affida a Lui. In questa prospettiva, la misericordia non è semplicemente un attributo divino, ma il cuore stesso della regalità di Gesù: una regalità che salva, che accoglie, che trasforma.
Vergine Maria, Regina del cielo e della terra,
anche tu, per grazia, estendi la regalità
di cui l'Onnipotente ti ha rivestita
per mezzo della tua immensa e irraggiungibile umiltà.
A te, "serva" del Signore, rivolgiamo la nostra preghiera,
affinché tu ci accompagni sul sentiero del Regno
di tuo Figlio Gesù,
per esserne partecipi interamente,
offrendo non potere, non successo, non mondanità,
ma servizio, umiltà e carità,
fino al rinnegamento dell'io,
perché l'umanità sussulti di santa speranza.
Amen.
don Nicola De Luca
