GIUSEPPE, CUSTODE DELLA SPERANZA GENERATA DALLO SPIRITO

19.12.2025

DOMENICA 21 DICEMBRE 2025

IV DOMENICA DI AVVENTO - ANNO A

Gesù nascerà da Maria, sposa di Giuseppe, della stirpe di Davide. Mt 1, 18-24


Introduzione

Ci avviciniamo al Natale in un tempo storico segnato da grande fragilità. Guerre che sembrano interminabili, violenze che colpiscono i più deboli, instabilità economiche, paure diffuse per il futuro: tutto questo rischia di spegnere la speranza o di ridurla a un sentimento ingenuo e fragile. È la percezione di un mondo che fatica a intravedere un orizzonte e che spesso confonde la speranza con un semplice ottimismo, destinato prima o poi a infrangersi contro la durezza dei fatti. Tuttavia, proprio in mezzo a queste ombre e inquietudini, la Parola di Dio ci invita a sollevare lo sguardo, non per evadere dalla concretezza della storia, ma per scorgere, come tra le pieghe della notte, la luce che si fa largo. La Scrittura conosce bene questo movimento dello sguardo: non una fuga, ma un atto di fiducia. È un appello a non lasciarsi sopraffare dal disincanto o dalla rassegnazione, ma a riscoprire la forza di una speranza che non nasce dai nostri calcoli o dalle nostre capacità, bensì dall'iniziativa sorprendente di Dio. Una speranza che, nel linguaggio biblico, non è attesa passiva, ma tiqvàh (תִּקְוָה), una corda tesa verso il futuro, affidata a Dio anche quando tutto sembra cedere. Il profeta Isaia, in un tempo anch'esso segnato da crisi e smarrimento, annuncia un segno che supera ogni previsione umana: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio» (Is 7,14). È un segno che non si impone con la forza, ma si offre nella discrezione di una promessa. Non è la potenza degli uomini a inaugurare tempi nuovi, ma la fedeltà di Dio che si incarna nella storia umana. Come ricorda Benedetto XVI, «Dio entra nella storia in modo umile, quasi nascosto, e proprio così la trasforma dall'interno» (Gesù di Nazaret, Infanzia). San Paolo, con parole colme di stupore e gratitudine, proclama che questo Figlio è il compimento delle promesse antiche: il Vangelo di Dio, «promesso per mezzo dei suoi profeti nelle Sacre Scritture» (Rm 1,2), radicato nella nostra vicenda storica e, al tempo stesso, opera dello Spirito che trasforma ciò che sembrava impossibile. Qui la speranza assume il volto della elpis (ἐλπίς), non come illusione, ma come certezza fondata sull'agire di Dio. Non si tratta di favole consolatorie, ma di un annuncio che si fa carne, che entra nelle nostre contraddizioni per aprire un futuro diverso. Come osserva Karl Rahner, «il cristianesimo non promette una spiegazione facile del mondo, ma la presenza di Dio dentro il suo enigma». Il Vangelo di Matteo, infine, ci introduce nel cuore di una storia profondamente umana, fatta di timori, silenzi, domande senza risposta e decisioni dolorose: la storia di Giuseppe. Egli rappresenta ciascuno di noi chiamato a custodire una speranza che spesso matura nel buio della notte, nell'incertezza di ciò che non si comprende fino in fondo. Giuseppe è l'uomo giusto (díkaios, δίκαιος), non perché possiede tutte le risposte, ma perché si affida alla Parola che gli è donata. Prima che il Natale esploda nella gioia e nella luce di Betlemme, esso germoglia nel segreto: nel grembo verginale di Maria e nel cuore obbediente e silenzioso di Giuseppe, che si fida della parola ricevuta e si apre al futuro che Dio sta preparando. È qui che la speranza trova la sua radice più profonda: non nell'assenza delle difficoltà, ma nella fede che Dio non abbandona la sua creatura e continua a operare, anche quando tutto sembra smentirlo. Come scrive Georges Bernanos, «la speranza è un rischio da correre», il rischio di credere che, proprio nella notte, Dio sta già facendo nascere il suo giorno.

1. La generazione miracolosa del Verbo: la speranza nasce dall'iniziativa di Dio

Il Vangelo rimane fermo e luminoso nel suo annuncio: «Il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20). Qui si spalanca il cuore del mistero cristiano, dove l'Incarnazione del Verbo (Lógos, λόγος) non scaturisce da alcun percorso umano, ma si rivela come dono libero, sorprendente e sovrano di Dio. È la gratuità dell'amore divino, il suo agire che supera ogni aspettativa e schema terreno.nMatteo, con attenzione sapienziale, adotta un linguaggio che fa vibrare le corde della creazione originaria: ciò che prende forma nel grembo di Maria è opera dello Πνεῦμα Ἅγιον (Pneûma Hágion), lo Spirito Santo, il soffio vivificante di Dio che chiama all'esistenza ciò che da solo non potrebbe essere. Come all'alba della Genesi, nessuno può vantare il merito di ciò che accade: è Dio che crea e ricrea, che genera vita dove sembrava impossibile. Non vi è spazio per la pretesa umana, per la logica del controllo o della programmazione: la salvezza si manifesta come puro atto creativo, come iniziativa che precede ogni risposta e ogni merito dell'uomo.

Questo evento richiama consapevolmente le prime pagine della Scrittura, laddove «lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque»: רוּחַ אֱלֹהִים (rûaḥ ʼĔlōhîm) (Gn 1,2). Il parallelo è potente: all'inizio della creazione, come ora all'inizio della redenzione, è lo Spirito a inaugurare un futuro dove l'uomo non vede sbocchi. L'Incarnazione si rivela così quale nuova creazione, non semplice proseguimento della storia, ma suo compimento dall'interno, una rigenerazione che trasfigura la trama della vicenda umana. In questa luce, la fede della Chiesa ha riconosciuto nel Natale l'inizio di quella ricapitolazione di tutte le cose in Cristo di cui parla sant'Ireneo di Lione: Dio non abbandona la storia, ma la raccoglie e la conduce al suo senso pieno.

La verginità di Maria, lungi dall'essere un dettaglio marginale, si impone come segno teologico essenziale. Essa proclama che la salvezza non nasce mai dal possesso, dal dominio, dalla forza generativa dell'uomo, ma si radica nell'accoglienza fiduciosa e libera dell'azione di Dio. Il Figlio viene al mondo senza intervento maschile affinché nessuno possa attribuirsi la paternità della redenzione: tutto è grazia, tutto è dono ricevuto. Il profeta Isaia aveva preannunciato questo mistero come un segno: אוֹת (ʼôt) (Is 7,14). Non si tratta di un prodigio che abbaglia, ma di un evento che interroga, che domanda discernimento e fede. Il segno di Dio non si impone con forza, non elimina l'incertezza, ma invita a un cammino di fiducia, apre uno spazio dove la libertà è chiamata a rispondere, dove il rischio della fede diventa fecondità.

La tradizione cristiana ha sostato a lungo davanti a questo mistero. San Leone Magno sottolinea che nel Natale «Colui che è vero Dio nasce come vero uomo, senza che l'una natura diminuisca l'altra»: l'Incarnazione non cancella l'umano, ma lo assume e lo innalza, lo trasfigura dall'interno. Dio entra nella storia non per sostituirsi all'uomo, ma per guarirne la debolezza, per abitarne la fragilità e ricrearla. Questa verità risuona con forza particolare nel nostro tempo, segnato da illusioni di potenza, da speranze affidate alla ricchezza, alla tecnologia, alla forza militare. Il Natale, invece, rovescia ogni logica mondana: la speranza non nasce dal controllo, dal successo, dalla vittoria, ma dal lasciarsi plasmare dall'iniziativa di Dio, dall'abbandono fiducioso che spalanca le porte al suo agire.

Il Figlio di Dio si presenta al mondo come bambino, fragile e inerme. È generato dallo Spirito affinché la salvezza non sia mai confusa con il trionfo umano, né con la riuscita secondo criteri mondani. Hans Urs von Balthasar ci ricorda che Dio salva il mondo non con la forza, ma con l'umiltà dell'amore che si abbassa, che prende su di sé la carne fino all'ultimo frammento di umanità. La generazione verginale del Verbo diventa così una parola definitiva anche per la nostra fede: proprio quando la storia appare sterile, quando il futuro si chiude, quando l'uomo sperimenta il limite e la paura, Dio continua a generare vita inaspettata. Qui si fonda la speranza cristiana: credere che Dio opera anche quando ogni risorsa umana sembra venuta meno, che la notte può diventare aurora, che la storia non è mai abbandonata al suo destino.

Il Natale, allora, prima che festa da celebrare, è mistero da accogliere nella profondità del cuore e della vita. Dio non attende che l'uomo si innalzi verso di Lui; è Lui che discende nella storia, generato dallo Spirito, per condividere e trasfigurare la nostra condizione. Da questa iniziativa gratuita germoglia una speranza capace di attraversare le notti del mondo, di resistere alle tempeste della storia, di fiorire là dove ogni attesa sembrava svanita. È la speranza che nasce dall'amore che si fa carne e abita in mezzo a noi.

2. Giuseppe, uomo giusto: la speranza che non ferisce

L'evangelista Matteo dipinge Giuseppe con una parola che racchiude un universo spirituale: δίκαιος (díkaios), uomo giusto (Mt 1,19). Non si tratta solo di un attributo morale, ma di una categoria biblica che attraversa tutta la storia della salvezza. Il giusto, in ebraico צַדִּיק (ṣaddîq), è colui che si lascia plasmare dalla volontà di Dio, che accoglie la sua parola come criterio ultimo di discernimento e di azione. La giustizia di Giuseppe non è mai sterile osservanza, né freddo rispetto di norme: è un modo di stare nel mondo che mette al centro la relazione, il rispetto, la cura per l'altro. È la giustizia di chi, come dice il Salmo, «trova la sua gioia nella legge del Signore» (Sal 1,2), non come peso, ma come via di vita.

La sua conoscenza della Torah non diventa mai pretesto per la condanna. Giuseppe sa che la situazione di Maria, secondo la Legge, è oggettivamente problematica; potrebbe invocare la giustizia come arma, come scudo per difendere se stesso, per ristabilire l'ordine. Eppure, la sua giustizia si rivela come misericordia, come capacità di leggere oltre l'apparenza, di non ridurre la persona all'errore o alla fragilità. Qui risuona la parola biblica חֶסֶד (ḥesed), la misericordia fedele che accompagna la giustizia e la trasfigura. Giuseppe non si lascia imprigionare dalla rigidità, ma apre uno spazio di silenzio, di discernimento: «Pensò di ripudiarla in segreto», ci racconta l'evangelista, lasciando intravedere un tormento silenzioso, una lotta interiore che si consuma nell'ombra, lontano dagli occhi del mondo. È la giustizia che, come insegna il profeta Michea, cammina «con umiltà davanti al tuo Dio» (Mi 6,8).

È in questo travaglio che nasce una speranza inattesa. Una speranza che non si nutre di ottimismo superficiale, ma della scelta radicale di non ferire, di non aggiungere dolore al dolore, di non rispondere al mistero con la durezza. Giuseppe si fa custode di una giustizia che non condanna, ma protegge; che non espone, ma ripara. Isaia lo aveva profetizzato: «Il sentiero del giusto è diritto, il cammino del giusto tu rendi piano» (Is 26,7). Giuseppe cammina proprio su questo sentiero: la sua giustizia è dolcezza che sa riconoscere la dignità dell'altro anche dove tutto sembra oscurarsi. In lui si manifesta quella giustizia più grande di cui parlerà Gesù nel Vangelo (cf. Mt 5,20), una giustizia che nasce dal cuore convertito.

Nel nostro tempo, segnato da polarizzazioni, da giudizi rapidi e taglienti, dalla tendenza a difendere la propria posizione fino all'esclusione dell'altro, la figura di Giuseppe emerge come segno di contraddizione. Non si lascia guidare dalla logica dello scontro, ma dalla scelta del bene silenzioso, della discrezione che salva. La sua speranza è quella di chi sa perdere qualcosa di sé per non perdere l'altro; di chi crede che la fedeltà, anche nella prova, sia più feconda della vittoria personale. In questo senso, Giuseppe appare come uomo delle beatitudini vissute prima ancora di essere proclamate. Questa speranza non è debolezza, ma forza che si fa piccolo, che resiste senza clamore. È la speranza di chi, come scrive il salmista, «affida al Signore la sua via, confida in lui ed egli agirà» (Sal 37,5). Giuseppe incarna la fede che non pretende di capire tutto, che attende nel buio, che si lascia sorprendere dal modo in cui Dio trasforma la storia. È la fede che si affida al kairos di Dio, al tempo opportuno che matura nel silenzio.

Tuttavia, la giustizia – per quanto luminosa – non basta a penetrare il mistero. La Legge può custodire la vita, ma non può generare la novità. Occorre quella disponibilità che solo la fede sa offrire: il coraggio di affidarsi, di accogliere ciò che supera ogni logica umana. La Scrittura lo mostra con delicatezza: Giuseppe è giusto, ma ancora in cammino. Come Abramo, come Noè, chiamati giusti (צַדִּיק, ṣaddîq), ma divenuti padri della promessa solo quando hanno creduto all'impossibile. Come ricorda san Paolo, «il giusto vivrà per fede» (Rm 1,17).

Benedetto XVI sottolinea come la giustizia di Giuseppe sia apertura radicale alla volontà di Dio, disponibilità a lasciarsi superare laddove Dio si manifesta. È questa apertura che trasforma Giuseppe da semplice osservatore della Legge a protagonista della storia della salvezza; non rimane un personaggio secondario, ma diventa custode del mistero, padre secondo lo Spirito. In lui la giustizia si compie come obbedienza della fede (oboedientia fidei), capace di accogliere ciò che non si comprende pienamente. La speranza che Giuseppe incarna è fragile come la notte, ma vera come l'aurora. È la speranza di chi resta fedele senza vedere ancora la luce, di chi attende senza comprendere tutto, di chi lascia uno spazio a Dio proprio nell'ora dell'oscurità. Prima ancora che intervenga l'angelo, Giuseppe prepara il Natale con la sua scelta: quella di non ferire, di non distruggere, di confidare che, anche nel buio, Dio stia già operando. La sua giustizia si fa seme di una speranza che non delude, perché permette all'amore di Dio di germogliare proprio là dove tutto sembrava perduto.

3. Oltre la giustizia: la fede che accoglie il mistero e custodisce la speranza

Il racconto evangelico si arricchisce di profondità e significato proprio nel momento in cui Dio irrompe nel travaglio interiore di Giuseppe, segnando un passaggio che non è solo narrativo, ma esistenziale. «Mentre stava considerando queste cose» (Mt 1,20), vediamo Giuseppe attraversare una notte dello spirito, un tempo sospeso tra il dubbio e la responsabilità. È una dinamica ben nota nella Scrittura: Dio spesso parla quando l'uomo è nel discernimento, non nella certezza. In questo spazio di silenzio e vulnerabilità, Dio non si manifesta con la forza di una logica stringente, ma con la delicatezza di una rivelazione: l'angelo del Signore gli parla nel sogno, luogo di confine tra il visibile e l'invisibile, tra la ragione e la fede, come già era accaduto a Giacobbe (cf. Gen 28,12).

Il messaggio dell'angelo si apre con una parola che vibra in tutta la Scrittura, come una carezza che precede ogni grande chiamata: μὴ φοβοῦ (mē phoboû) — non temere. È la stessa parola che Dio ha rivolto ad Abramo, a Mosè, ai profeti, a Maria: un invito che non elimina la fatica, non azzera l'incognita del rischio, ma la trasforma in spazio abitabile dalla fiducia. Come osserva la tradizione biblica, il "non temere" non è mai una promessa di sicurezza, ma l'assicurazione di una Presenza. Qui la fede non è fuga dalla realtà, ma il coraggio di entrare nell'ignoto, sapendo che il rischio stesso può diventare luogo di incontro con il Mistero.A Giuseppe viene svelato ciò che nessun calcolo umano avrebbe potuto immaginare: «Il bambino che è in lei viene dallo Spirito Santo». In questa rivelazione, ciò che agli occhi del mondo appare come scandalo si rivela invece come il cuore stesso della salvezza. Giuseppe è chiamato a lasciare che la sua giustizia, tanto autentica quanto luminosa, venga oltrepassata dalla fede: una fede che si fa apertura radicale all'inedito di Dio, capace di scardinare ogni pregiudizio, ogni schema troppo umano. È il passaggio dalla sola giustizia alla fiducia totale nell'agire di Dio.

Nella Scrittura, la fede non si esaurisce mai in un consenso intellettuale o in una semplice ortodossia dottrinale; è, piuttosto, אֱמוּנָה (ʼemûnāh): stabilità, fiducia, fedeltà che permette di consegnare la propria storia nelle mani di Dio, anche quando il futuro resta avvolto nell'ombra. Giuseppe entra pienamente in questa dinamica: non pone condizioni, non cerca rassicurazioni, non pretende di decifrare tutto prima di agire. Accoglie la parola ricevuta e la trasforma in orientamento concreto, in stile di vita. Come Abramo, «credette al Signore» (Gen 15,6), affidandosi a una promessa che superava ogni evidenza. Il comando dell'angelo, «Prendi con te Maria» e «tu lo chiamerai Gesù», si rivela carico di responsabilità e di mistero. Dare il nome, nella cultura biblica, equivale ad accogliere, abbracciare, assumere su di sé la responsabilità piena della persona. Il nome Ἰησοῦς (Iēsoûs) — colui che salva — è già promessa e compito insieme: Giuseppe non solo accetta di diventare padre secondo lo Spirito, ma si fa garante e custode di un destino che non gli appartiene, lasciando che la propria paternità sia abitata dalla presenza di Dio.

Qui si dischiude tutta la grandezza di Giuseppe: egli accoglie una missione che non gli offre certezze, ma lo espone alla precarietà; abbraccia un futuro che non controlla, ma che affida giorno dopo giorno alla fedeltà di Dio. Non si pone al centro, non reclama diritti, ma si fa servo di un mistero più grande di lui. In questa obbedienza silenziosa, la tradizione patristica ha riconosciuto una delle forme più pure della fede. San Giovanni Crisostomo mette in luce proprio questo aspetto: Giuseppe non chiede segni supplementari, non resta bloccato nei dubbi, ma «credette alla parola e obbedì senza esitazione». La sua fede è immediata, concreta, incarnata: si trasforma subito in gesto, in accoglienza, in cura.

Questa fede, profondamente cristologica, fa sì che accogliendo il Figlio di Maria, Giuseppe renda possibile che il Messia entri nella storia come figlio di Davide, compiendo così le antiche promesse. La speranza di Israele si fa carne e storia attraverso la sua disponibilità e la sua obbedienza discreta. Non c'è nulla di appariscente, nulla che attiri l'attenzione: tutto si consuma nel quotidiano, nella fedeltà ai piccoli gesti, in quella capacità di custodire che è segno di vera paternità, come sottolinea anche il magistero recente dedicato alla figura di san Giuseppe.

Di fronte alle sfide e alle incertezze del nostro tempo — segnato da fragilità, paure collettive, inquietudini profonde — la figura di Giuseppe si rivela di una attualità sorprendente. Egli non sa come sarà il domani, ma sa a chi affidarlo; non possiede soluzioni immediate, ma custodisce una presenza che trasforma. La sua fede non è fuga dal reale, ma responsabilità vissuta alla luce di Dio, secondo la bellissima intuizione di Dietrich Bonhoeffer: la fede autentica non consiste nel prevedere il futuro, ma nel vivere con coraggio il presente, lasciando che sia Dio a illuminarlo.

Alla vigilia del Natale, Giuseppe si fa per noi custode della speranza: una speranza che nasce dall'ascolto della Parola, che cresce nell'obbedienza quotidiana e si affida allo Spirito anche quando il cammino è avvolto dall'oscurità. La sua fede ci ricorda che il Natale non è mai solo memoria di un evento passato, ma accoglienza di una presenza viva e operante, che ancora oggi chiede cuori disponibili a fidarsi perché il mistero di Dio possa continuare a entrare nella nostra storia.

Conclusione

Giunti alle soglie del Natale, la figura di san Giuseppe si staglia davanti a noi con una forza discreta ma decisiva, quasi fosse la quieta radice che sostiene un albero in tempesta. In un'epoca segnata da smarrimento, conflitti e paure collettive, dove la tentazione di cercare risposte immediate e soluzioni rassicuranti è forte, Giuseppe si presenta come l'uomo del silenzio fecondo, della speranza che matura lontano dai riflettori. Egli non offre parole facili né promesse di tranquillità; la sua presenza è un invito a sostare nel mistero, a lasciarsi plasmare dalla fiducia che nasce proprio quando le certezze vacillano. È il silenzio di cui parla il Salmo: «Solo in Dio riposa l'anima mia» (Sal 62,2). La lezione di Giuseppe è quanto mai attuale: ci insegna che la speranza cristiana non germoglia dall'eliminazione delle difficoltà, ma dalla capacità di abitare il buio e di attraversarlo con il cuore aperto all'opera di Dio. È una speranza che non si nutre di ottimismo ingenuo, né si fonda sull'illusione del controllo; piuttosto, prende forma nella vulnerabilità, nella scelta quotidiana di affidarsi anche quando il cammino resta avvolto dalle ombre. Giuseppe vive la sua notte dello spirito, ma non si lascia paralizzare dal timore né dalla mancanza di risposte. In lui la fiducia diventa spazio accogliente, in cui Dio può manifestarsi e trasformare ogni limite in possibilità nuova. Come ricorda san Paolo, «la speranza non delude» (Rm 5,5), perché nasce dall'agire fedele di Dio. La sua obbedienza non è mera rassegnazione, né passiva accettazione di un destino imposto. È, invece, adesione piena e consapevole a un disegno che lo supera e lo interpella. Il Vangelo si esprime con una sobrietà che illumina: «Fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore» (Mt 1,24). In questa frase essenziale si raccoglie tutta la grandezza di Giuseppe, la sua capacità di lasciar parlare la vita più che le parole. Non cerca prove supplementari, non aggiunge condizioni: il suo agire è il luogo in cui la Parola si fa carne, in cui il Figlio di Dio entra nella storia degli uomini. È quell'obbedienza della fede (oboedientia fidei) di cui parla la tradizione apostolica. Nel suo "sì" silenzioso prende corpo ciò che la Scrittura chiama πίστις (pístis): una fede che non si esaurisce in una convinzione interiore, ma diventa fiducia operante, capace di orientare scelte, gesti, relazioni. È una fede che si fa concretezza, che permette allo Spirito di generare vita anche oggi, proprio nelle pieghe più fragili e inaspettate della storia umana. Giuseppe diventa così paradigma di quella fedeltà che non cerca il successo, ma la verità; che non si misura con il consenso, ma con la coerenza quotidiana. Come dirà Gesù, «chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto» (Lc 16,10). In un mondo che spesso confonde la speranza con l'ottimismo superficiale o con il raggiungimento del successo personale, san Giuseppe ci ricorda che la vera speranza nasce dalla fedeltà, dall'ascolto perseverante della Parola, dall'accoglienza dell'altro anche quando significa rinuncia e rischio. La sua è la speranza di chi custodisce senza possedere, di chi serve senza dominare, di chi abita la realtà senza fuggirla, illuminato dalla presenza di Dio. È, in fondo, la speranza dei piccoli passi, dei gesti quotidiani che tessono silenziosamente la trama del Regno, secondo la logica del seme che cresce nel nascondimento (cf. Mc 4,26-29). Alla vigilia del Natale, affidiamo a san Giuseppe le ferite del nostro tempo: le guerre che lacerano popoli e famiglie, le ingiustizie che appesantiscono i cuori, le paure che abitano le nostre notti e le fragilità che segnano le nostre relazioni. Chiediamogli di insegnarci a preparare una casa a Dio, come fece lui, non con imprese straordinarie, ma con la fedeltà minuta delle scelte di ogni giorno, con la capacità di accogliere e di custodire anche ciò che non comprendiamo fino in fondo. Perché il Natale, lo sappiamo, non è soltanto memoria di un evento passato, ma accoglienza di una presenza viva, che continua a farsi carne ogni volta che un uomo o una donna, sulle orme di Giuseppe, sceglie di fidarsi di Dio, di lasciare che la speranza germogli anche nella notte. In questo mistero, la vita si trasforma, il tempo si rinnova, e la storia si apre alla luce che non conosce tramonto.

Vergine Maria,

grembo sempre e verginale e fecondo,

aiuta noi tutti ad essere come il tuo amato Giuseppe:

credenti che sappiano camminare oltre la giustizia,

sognatori dei sogni di Dio,

appassionati del mistero di Cristo che ci viene accanto

e ci trascende.

don Nicola De Luca