DIO AFFIDA LA SPERANZA A UNA FAMIGLIA

27.12.2025

DOMENICA 28 DICEMBRE 2025

DOMENICA FRA L'OTTAVA DI NATALE – SANTA FAMIGLIA DI GESU', MARIA E GIUSEPPE, FESTA – ANNO A

Prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto Mt 2,13


Introduzione

La festa della Santa Famiglia ci conduce dentro una pagina di Vangelo intensa e, per certi versi, scomoda. Non ci viene offerta un'immagine idealizzata e rassicurante della famiglia di Nazareth, ma il volto di una famiglia costretta a fuggire, segnata dall'urgenza di salvare la vita di un bambino, esposta alla precarietà e alla paura. Il Vangelo parla con realismo: parla di notte, di pericolo, di decisioni prese in fretta, di un padre che si alza e obbedisce senza garanzie, di una madre che stringe il figlio senza sapere dove condurrà il cammino. È una famiglia che conosce l'insicurezza dell'esilio e l'esperienza dello sradicamento. Matteo usa il verbo greco φεύγω (phéugō), "fuggire", lo stesso che indica una corsa urgente per salvarsi: non una scelta strategica, ma una necessità vitale. La Sacra Famiglia entra così nella storia non come modello astratto, ma come famiglia reale, vulnerabile, esposta. In questo senso, la festa della Santa Famiglia è scomoda perché smonta ogni retorica: ci ricorda che la santità non coincide con l'assenza di prove, ma con la capacità di attraversarle affidandosi. Come Israele in Egitto, anche Gesù conosce la condizione dell'esule; si compie così, fin dall'infanzia, quella solidarietà profonda con l'umanità ferita che attraverserà tutta la sua vita (cf. Os 11,1; Mt 2,15). Gesù, il Figlio di Dio, entra nella storia non scegliendo una via protetta, ma abitando fino in fondo la fragilità di una famiglia umana. Non nasce in un contesto immune dal rischio, ma dentro una storia segnata dalla minaccia e dalla paura. La Scrittura direbbe che assume la σάρξ (sárx), la carne fragile, esposta, vulnerabile (cf. Gv 1,14). È in questa carne concreta, non idealizzata, che Dio decide di farsi presente. Dio affida la salvezza del mondo non alla forza, ma alla fedeltà quotidiana di una casa. Affida il suo Figlio alle mani di Maria e Giuseppe, alla loro obbedienza silenziosa, alla loro capacità di custodire la vita anche quando non la comprendono fino in fondo. Qui si manifesta una logica profondamente evangelica: ciò che salva il mondo non è il potere, ma la custodia; non l'eccezionale, ma il quotidiano vissuto con fedeltà. I Padri della Chiesa hanno colto bene questa dimensione. Origene osservava che Cristo «non disdegna di essere custodito da mani umane, perché attraverso di esse vuole salvare l'uomo». E san Giovanni Crisostomo sottolineava che Giuseppe non parla mai nel Vangelo, ma "obbedisce sempre": una fede fatta di atti, non di proclami. Anche la teologia contemporanea insiste su questo punto: la famiglia di Nazareth è il luogo in cui Dio mostra che la salvezza passa attraverso relazioni affidabili, non attraverso strutture di potere. È una casa fragile, ma abitata dalla promessa. Potremmo dire, con un linguaggio biblico, che è una casa posta sotto la שָׁמַר (shāmar), la "custodia" di Dio: un verbo che in ebraico indica il custodire vigilante, amoroso, responsabile (cf. Sal 121). Così la Santa Famiglia diventa per noi non un ideale irraggiungibile, ma una parola viva: Dio abita le nostre fragilità, e proprio lì continua a generare salvezza.

1. Dio affida la salvezza a una famiglia fragile

«Prendi con te il bambino e sua madre». Queste parole, semplici e potenti, segnano uno spartiacque nella storia della salvezza: Dio pone il destino del suo Figlio non nelle mani di re o di potenti, ma in quelle di una famiglia umile, povera, vulnerabile. Il comando rivolto a Giuseppe è essenziale, privo di spiegazioni, carico di urgenza e fiducia. Nel testo greco Matteo utilizza l'espressione παράλαβε (parálabe), "prendi con te", che non indica solo un accompagnare, ma un assumere sotto la propria responsabilità, un affidamento totale. Qui si manifesta una pedagogia divina: Dio non sottrae il Figlio al rischio, ma lo affida alle mani umane, esposte, limitate, ma capaci di fedeltà e custodia.

La Santa Famiglia conosce l'insicurezza, l'esilio, l'assenza di garanzie. Non è una famiglia fuori dalla storia, ma immersa nelle sue contraddizioni, nelle sue paure, nel suo quotidiano. Dio non salva il mondo evitando la fragilità, ma abitandola, facendosene compagno. In questo, si rivela una logica profondamente evangelica: Dio non sceglie la via dell'efficienza, ma quella della fiducia. Come dirà Paolo, «Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti» (1Cor 1,27). La famiglia di Nazareth diventa così il luogo teologico in cui la debolezza non è scartata, ma assunta come spazio di rivelazione e di grazia.

I Padri della Chiesa hanno meditato a lungo su questo paradosso. Sant'Ireneo affermava che «la gloria di Dio è l'uomo vivente», e potremmo aggiungere: l'uomo vivente dentro relazioni fragili, reali, segnate dal limite. Origene osserva che Dio affida il Figlio a Giuseppe perché «la fede cresce proprio là dove non ci sono sicurezze umane». Non è l'assenza di prove a rendere santa una famiglia, ma la fedeltà nel mezzo delle prove, la capacità di restare, di custodire, di affidarsi anche quando non si comprende tutto. San Giovanni Crisostomo, come ricordato nell'introduzione, sottolinea che Giuseppe "obbedisce sempre": una fede fatta di atti silenziosi, non di proclami.

Quante famiglie oggi condividono esperienze simili: difficoltà economiche, fatiche educative, relazioni ferite, solitudini silenziose. Nulla di tutto questo è estraneo a Dio. Anzi, potremmo dire che è proprio lì che Dio si rende vicino, si fa compagno di viaggio. La Scrittura ebraica usa il verbo יָדַע (yadà'), "conoscere", per indicare una conoscenza che nasce dalla condivisione profonda, dall'esperienza vissuta. Dio conosce le nostre fatiche perché le attraversa con noi. La Santa Famiglia diventa così uno specchio in cui molte famiglie possono riconoscersi senza vergogna, e una promessa: nessuna fragilità è esclusa dal disegno di salvezza, nessuna storia è troppo povera per essere abitata da Dio.

Approfondendo ulteriormente, possiamo cogliere come la scelta di Dio di affidare la salvezza a una famiglia fragile sia anche una denuncia contro ogni spiritualità disincarnata. Non c'è salvezza senza la carne, senza la storia, senza le relazioni. La famiglia di Nazareth è una teofania della presenza di Dio nel limite umano. In essa, la fede non è un ideale astratto, ma una forza che si esprime nella capacità di stare, di custodire, di ripartire nonostante tutto. È nella notte dell'incertezza che si genera la luce della speranza.

Questa pagina evangelica provoca anche la nostra cultura contemporanea, spesso tentata di misurare il valore delle persone e delle famiglie sulla base dell'efficienza, della produttività, della riuscita. Qui, invece, il valore nasce dalla fedeltà, dalla capacità di prendersi cura, di assumere la responsabilità dell'altro. La famiglia di Nazareth ci ricorda che la vera forza è custodire la vita, anche quando è fragile, anche quando non si capisce il senso pieno del cammino.

Infine, la Santa Famiglia ci dice che la salvezza è sempre una storia condivisa: nessuno si salva da solo, nessuno è escluso dalla cura di Dio. Il Vangelo ci invita a riconoscere la presenza di Dio nelle nostre case, nelle nostre relazioni, anche là dove tutto sembra precario. La promessa è questa: Dio non cerca famiglie perfette, ma cuori disposti a fidarsi, a custodire, a camminare nella fragilità. In questo, ogni famiglia può diventare, come quella di Nazareth, uno spazio di salvezza e di benedizione per il mondo intero.

2. La famiglia è il primo bersaglio del male

Il Vangelo parla chiaramente: Erode cerca il bambino per ucciderlo. Il potere ha paura della vita che cresce. Il male teme ciò che nasce nel silenzio. Matteo non usa mezze parole: il verbo greco è ζητεῖν (zēteîn), "cercare con insistenza", quasi ossessivamente. Non si tratta di una minaccia generica, ma di un'intenzione precisa: eliminare una vita fragile prima che possa crescere. È il paradosso del male: teme non ciò che è già forte, ma ciò che è appena nato; non ciò che domina, ma ciò che promette futuro.

La Sacra Famiglia diventa così il primo bersaglio di una violenza che non sopporta la logica dell'Incarnazione. Il Figlio di Dio non viene contrastato con argomentazioni, ma con la soppressione. Qui il Vangelo ci consegna una verità scomoda: ogni volta che una vita viene minacciata, ogni volta che una relazione viene spezzata, ogni volta che una famiglia viene colpita, è in atto la stessa paura antica del male di fronte alla vita che nasce. Quando la famiglia viene indebolita, l'intero tessuto sociale si lacera. La prima lettura del Siracide ricorda che onorare i legami familiari è fonte di benedizione e di vita.

Il Siracide usa un linguaggio fortemente sapienziale: onorare il padre e la madre è presentato come una radice di stabilità, una benedizione che "rimane". Il testo ebraico richiama il verbo כָּבֵד (kabèd), "onorare", che significa letteralmente dare peso, riconoscere valore. Quando i legami familiari vengono svuotati di peso, tutta la società diventa più fragile, più esposta, più vulnerabile. San Paolo, nella lettera ai Colossesi, traccia il volto concreto di una famiglia cristiana possibile: misericordia, pazienza, perdono, amore. Non un ideale irraggiungibile, ma uno stile quotidiano. Paolo usa il termine greco οἰκτιρμοί (oiktirmoí), "viscere di misericordia", per indicare un amore che nasce dalle profondità della persona; e parla di ἀγάπη (agápē) come "vincolo della perfezione", ciò che tiene insieme quando tutto rischia di sfilacciarsi.

I Padri della Chiesa vedevano nella famiglia il primo spazio di resistenza al male. Giovanni Crisostomo affermava che «la casa è una piccola Chiesa», perché è lì che si impara a perdonare, a sopportarsi, a ricominciare. Dove questi gesti vengono meno, il male trova terreno fertile; dove invece vengono custoditi, anche nella fatica, la vita continua a crescere. La famiglia, allora, non è solo un fatto privato: è un luogo decisivo di umanizzazione. Ed è per questo che il male la colpisce per prima. Perché sa che, se vengono spezzati i legami fondamentali, anche la speranza collettiva si indebolisce.

3. La famiglia come baluardo contro il male

Per comprendere fino in fondo la dinamica spirituale e sociale che vede la famiglia come primo bersaglio del male, occorre rileggere la storia dell'umanità alla luce delle grandi narrazioni bibliche e della tradizione cristiana. Fin dalle origini, la famiglia rappresenta il luogo in cui la vita prende forma, cresce e si trasmette: è il grembo in cui si impara la fiducia, si affrontano le prime prove, si sperimenta la gratuità dell'amore. Non a caso, il male insidia proprio questi legami, perché sa che colpendo la radice, si mina la possibilità stessa di futuro.

La vicenda di Erode che perseguita il Bambino Gesù non è solo un episodio storico, ma una chiave di lettura universale: ogni società in crisi mostra sintomi di smarrimento proprio nella crisi delle famiglie. Quando la famiglia è ferita, l'intera comunità ne risente. Questo perché la famiglia, pur con tutte le sue fragilità, è scuola di perdono, palestra di pazienza, laboratorio di speranza. È qui che si apprende la capacità di rialzarsi dopo una caduta, di ricominciare anche quando sembra impossibile.

La paura del male di fronte alla vita che nasce si manifesta ancora oggi in molteplici forme: dalla violenza domestica all'abbandono, dalla precarietà economica all'isolamento sociale. Queste ferite non sono solo drammi individuali, ma segnali di una battaglia più ampia contro la capacità generativa della famiglia. Nella cultura contemporanea, spesso dominata dall'individualismo e dalla ricerca del successo personale, la famiglia rischia di essere vista come un ostacolo o una realtà superflua. Invece, essa rimane il primo luogo in cui si sperimenta la possibilità di essere amati per ciò che si è, senza condizioni. I gesti quotidiani di misericordia, pazienza e perdono di cui parla san Paolo, sono antidoti potenti contro la logica del male. Non si tratta di virtù straordinarie, ma di scelte ripetute giorno dopo giorno, che costruiscono una trama di relazioni solide, capaci di resistere agli urti della vita. Quando queste virtù vengono meno, il male trova terreno fertile per insinuarsi, alimentando divisioni, rancori, indifferenza.

La famiglia, nella visione dei Padri della Chiesa, è davvero una "piccola Chiesa", un luogo sacro dove si rinnova il miracolo della comunione. Qui si impara che l'amore vero non è mai senza fatica, ma proprio nella prova trova la sua autenticità. La forza della famiglia non sta nella perfezione, ma nella capacità di custodire la vita anche nelle tempeste, di continuare a credere nel futuro quando tutto sembra perduto. È in questo senso che la famiglia diventa il primo baluardo contro il male: non perché immune dalla sofferenza, ma perché capace di trasformarla in occasione di crescita e di speranza.

Si comprende allora perché il male colpisca con tanta insistenza la famiglia: essa è il luogo dove si trasmette la fede, si educa all'amore, si costruisce la pace. Ogni attacco alla famiglia è, in fondo, un attacco alla possibilità stessa di un mondo più umano e fraterno. Ecco perché custodire la famiglia significa custodire la speranza, non solo dei singoli, ma dell'intera società.

Come dice un antico proverbio africano, "per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio": la famiglia è il primo villaggio, la prima comunità in cui l'uomo impara a vivere. Ecco perché, oggi più che mai, occorre difendere e sostenere la famiglia, non come ideale astratto, ma come realtà concreta, fatta di volti, storie, fatiche e speranze. Così la vita potrà continuare a germogliare, anche nel terreno più difficile, e il male non avrà mai l'ultima parola.

4. Nazareth: una famiglia che custodisce la vita

Di fronte alla violenza, Dio non risponde con la forza, ma con la custodia. Giuseppe obbedisce nel silenzio. Maria accompagna con fiducia. Gesù viene salvato. Il Vangelo è essenziale e, proprio per questo, eloquente. Non ci sono discorsi, non ci sono strategie, non c'è opposizione armata. C'è un uomo che ascolta e obbedisce, una donna che affida, un bambino che viene custodito. Giuseppe incarna l'obbedienza che nasce dall'ascolto profondo: Matteo ripete che egli "si alzò e fece" quanto il Signore gli aveva detto. Il verbo greco ὑπακούω (hypakoúō) indica un'obbedienza che viene dall'udire sotto, dal lasciarsi guidare da una voce più grande della propria paura.

Maria accompagna questo cammino con una fiducia silenziosa, che non elimina le domande ma le consegna a Dio. In lei si realizza ciò che Luca descrive con il verbo συμβάλλειν (symbállein), "custodire mettendo insieme": Maria tiene insieme gli eventi, anche quelli che non comprende, senza spezzarli. È una fede che non controlla, ma veglia. E Gesù viene salvato. Non attraverso un intervento spettacolare, ma grazie alla fedeltà concreta di una famiglia. La salvezza passa ancora una volta attraverso gesti ordinari: alzarsi, partire, proteggere, attendere.

Nazareth diventa la scuola della fedeltà quotidiana, dell'amore che resiste nel tempo. Non è il luogo dei miracoli straordinari, ma della perseveranza. È lì che Gesù "cresceva" (cf. Lc 2,52), dentro una trama di relazioni semplici, fatte di lavoro, silenzio, preghiera, attesa. La tradizione spirituale ha sempre visto in Nazareth il luogo della santità nascosta, dove il tempo è abitato senza clamore. I Padri parlavano di Nazareth come del laboratorio dell'Incarnazione. San Bernardo scrive che «Dio ha imparato a parlare agli uomini nel silenzio di una casa». Ed è significativo che Gesù passi la maggior parte della sua vita in questo nascondimento: quasi a dirci che la fedeltà quotidiana salva il mondo più di quanto immaginiamo.

La famiglia non è una semplice costruzione sociale, ma una vocazione, un luogo in cui Dio continua a rivelarsi. La Scrittura direbbe che è uno spazio di קָדַשׁ (qadàsh), di santificazione: un luogo separato non perché perfetto, ma perché abitato dalla presenza di Dio. Ogni casa che custodisce la vita, anche nella fragilità, diventa una piccola Nazareth.

In questo senso, la Sacra Famiglia non è distante da noi. È una parola consegnata alle nostre famiglie, chiamate non a essere impeccabili, ma a custodire, giorno dopo giorno, il dono ricevuto.

Nazareth, laboratorio di umanità e modello per il nostro tempo. Per comprendere appieno la portata di ciò che accade a Nazareth, è utile soffermarsi su alcuni aspetti che la tradizione e la riflessione cristiana hanno evidenziato nel corso dei secoli. Nazareth non rappresenta solo un luogo geografico, ma il simbolo di un'esistenza nascosta, fatta di fedeltà nel piccolo, di gesti senza clamore che però costruiscono una storia di salvezza. In un mondo che spesso esalta il successo visibile e l'eccezionalità, la casa di Nazareth ci insegna che la santità si costruisce nel quotidiano, nell'offerta silenziosa delle difficoltà, nella costanza di un amore che non si arrende.

La custodia di Giuseppe, che accoglie Maria e Gesù anche quando tutto sembra incomprensibile, ci parla di una paternità che non possiede, ma si fa garante della vita dell'altro. Il suo "alzarsi e fare" non è semplice esecuzione, ma adesione profonda a una chiamata che lo supera. È una lezione preziosa per ogni uomo e ogni padre: la grandezza non sta nel dominio, ma nel servizio fedele, nell'aprire spazi di crescita e libertà anche a costo della propria sicurezza.

Maria, dal canto suo, incarna una maternità che non si esaurisce nell'istinto di protezione, ma si apre al mistero, accogliendo anche ciò che non capisce. Il suo "custodire mettendo insieme" è un invito a unire i fili dispersi della vita, a non lasciarsi schiacciare dalle contraddizioni, ma a rimanere in ascolto, nella fiducia che tutto ha un senso davanti a Dio, anche ciò che non appare subito chiaro.

La stessa figura di Gesù bambino, vulnerabile e affidato alle mani dei suoi genitori, ci ricorda che la salvezza entra nella storia attraverso la fragilità, non attraverso la potenza. Dio sceglie la via della debolezza per mostrare che il vero potere è l'amore che si fa dono, protezione, cura. In questo, la famiglia di Nazareth diventa paradigma di ogni famiglia chiamata a custodire la vita – non quella perfetta, ma quella reale, segnata da limiti e paure, eppure abitata dalla presenza di Dio.

Nazareth, allora, è anche scuola di lavoro e di preghiera, laboratorio di umanità in cui la fede si intreccia con la fatica del vivere. Qui il sacro e il profano si incontrano, il divino si nasconde nella routine quotidiana: il lavoro di Giuseppe, la cura di Maria, i giochi e l'apprendimento di Gesù. La fede non allontana dalla realtà, ma la trasfigura dall'interno, mostrando che ogni gesto, anche il più umile, può diventare luogo di incontro con Dio.

Infine, la famiglia di Nazareth ci insegna che la vita non si custodisce da soli. C'è bisogno di ascolto reciproco, di affidamento, di una rete di relazioni che sostiene nei momenti difficili. In un'epoca in cui la solitudine sembra dilagare, il modello di Nazareth invita a riscoprire la bellezza della comunione domestica, della casa come primo santuario della presenza di Dio nel mondo.

In sintesi, Nazareth rimane per tutti noi una meta e un punto di partenza: meta verso cui tendere per imparare la fedeltà nell'ordinario, punto di partenza per trasformare le nostre case in luoghi di crescita, accoglienza e speranza. Come dice un proverbio italiano, "la vera forza sta nella costanza delle piccole cose": è proprio questa costanza, vissuta nello spirito della Sacra Famiglia, che può continuare a custodire e generare vita anche oggi.

Conclusione

Affidiamo le nostre famiglie alla Santa Famiglia di Nazareth. A Maria, Madre che custodisce la vita. A Giuseppe, uomo giusto che protegge senza possedere. In questo affidamento riconosciamo che la famiglia non è anzitutto una conquista da difendere, ma un dono da custodire. Maria è la donna del custodire: il Vangelo usa per lei il verbo greco τηρεῖν (tēreîn), che significa vegliare con attenzione, conservare con amore. Giuseppe è chiamato "giusto" perché vive una giustizia che non domina, ma serve; non trattiene, ma protegge. In lui si compie quella giustizia biblica che l'ebraico chiama צַדִּיק (tsaddìq), l'uomo che sta davanti a Dio con cuore retto e mani aperte. Affidare non significa rinunciare, ma riconoscere che la vita non ci appartiene. È il gesto più alto dell'amore: consegnare ciò che è prezioso a Colui che può custodirlo meglio di noi. Come scriveva sant'Agostino, «Dio è più intimo a noi di noi stessi»: affidare significa fidarsi di questa intimità che precede e supera la nostra.

Chiediamo la grazia di non fuggire dall'amore, di custodire ciò che è fragile, perché anche oggi, attraverso famiglie semplici e vere, Dio continui a salvare il mondo. Il Vangelo ci ha mostrato che Dio non salva con gesti eclatanti, ma attraverso fedeltà quotidiane. La famiglia diventa così il luogo in cui l'amore viene provato, purificato, reso adulto. Non si tratta di famiglie perfette, ma di famiglie vere, capaci di restare, di ricominciare, di custodire anche quando costa. La Scrittura direbbe che è lì che Dio continua a שָׁכַן (shakàn), ad "abitare": non nei luoghi ideali, ma nelle case dove si ama, si perdona, si affida. Ed è così che, ieri come oggi, Dio continua a salvare il mondo: passando per mani fragili, per relazioni imperfette, per famiglie che hanno il coraggio di restare nell'amore. Approfondendo ulteriormente, vale la pena soffermarsi sul significato profondo dell'affidamento alla Santa Famiglia. Questo gesto non rappresenta solo una preghiera, ma una vera e propria scelta di vita: significa entrare in una dimensione di fiducia e di abbandono nelle mani di Dio, accettando che la nostra storia personale e familiare sia parte di una trama più grande. In un mondo che spesso ci spinge a voler controllare ogni aspetto della nostra esistenza, l'affidamento diventa un atto rivoluzionario, capace di liberare dalle ansie e dalle paure che la fragilità inevitabilmente suscita. Maria e Giuseppe non sono modelli irraggiungibili, ma esempi concreti di come affrontare le incertezze e le difficoltà della vita quotidiana. Essi hanno vissuto le stesse fatiche, le stesse domande, eppure non si sono chiusi nella paura: hanno scelto la fiducia, l'ascolto, la perseveranza. Maria, con la sua capacità di custodire nel cuore e di meditare anche ciò che non comprendeva, ci insegna a dare spazio al mistero, a non pretendere risposte immediate, ma a lasciare che il senso delle cose maturi nel tempo, alla luce della fede. Giuseppe, invece, ci mostra che la giustizia vera si manifesta nel servizio silenzioso, nell'accoglienza delle responsabilità, nell'umiltà di chi si mette all'ultimo posto per lasciare spazio alla vita dell'altro. L'affidamento alla Santa Famiglia ci ricorda che anche le nostre case, pur segnate da limiti e imperfezioni, possono diventare luoghi di presenza divina. È nella semplicità degli affetti, nella fedeltà alle piccole cose, nella capacità di perdonare e di ricominciare che si costruisce una comunione autentica. Come dice un antico proverbio italiano, "Casa mia, casa mia, per piccina che tu sia, tu mi sembri una badia": ogni famiglia, anche la più umile, può essere santuario di speranza e di luce, se vissuta nella prospettiva dell'amore che si affida a Dio.

Inoltre, affidare le nostre famiglie non significa abdicare alle responsabilità, ma vivere con maggior consapevolezza il compito educativo e relazionale che ci è affidato. È un invito a non lasciarsi schiacciare dal peso delle aspettative, ma a riconoscere che il cammino familiare è fatto di passi piccoli, di cadute e di riprese, di giorni luminosi e giorni oscuri. La vera forza, come insegna la Sacra Famiglia, sta nella capacità di rimanere, di non arrendersi alle prime difficoltà, di continuare a scegliere l'amore giorno dopo giorno. Infine, la testimonianza della Famiglia di Nazareth ci incoraggia a creare reti di solidarietà tra famiglie, a non vivere isolati ma a sostenerci reciprocamente nelle prove e nelle gioie. In un tempo in cui la solitudine e la frammentazione sembrano prevalere, l'affidamento diventa anche apertura all'altro, costruzione di comunità, riscoperta di legami che danno senso e radici alla nostra esistenza. In conclusione, affidare la propria famiglia alla Santa Famiglia di Nazareth è un atto di coraggio, di fede e di speranza. È scegliere di lasciarsi guidare dalla logica dell'amore che si dona senza misura, certi che – come dice il Salmo – "se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori". È questa la sfida e la promessa che la Sacra Famiglia consegna a ciascuno di noi: la possibilità che, anche oggi, Dio continui ad abitare e a salvare il mondo attraverso la nostra quotidiana fedeltà nell'amore.

Vergine Maria, Sposa e Madre, insieme al tuo amato Giuseppe, uomo giusto e custode del Redentore, veglia, proteggi e vigila sull'amore coniugale perché non si perda mai tra i vicoli oscuri di questo mondo, ritrovi sempre rinnovata gioia ed entusiasmo e al tempo stesso custodisci ogni vita umana dal suo sorgere al suo tramonto.

don Nicola De Luca