ACCENDERE LA SPERANZA NEL DESERTO DEL MONDO

II Domenica di Avvento – Anno A
7 dicembre 2025
Convertitevi: il regno dei cieli è vicino! (Mt 3,1-12)
Sono verbi che delineano il cammino dell'attesa e della trasformazione. Come dice sant'Agostino, "Deus, qui creavit te sine te, non salvabit te sine te" — "Dio, che ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te": la grazia chiama la libertà e la coinvolge. La parola del profeta diventa un'eco anticipatrice dell'inaugurazione dei tempi messianici, attraverso immagini poetiche cariche di speranza: un mondo nuovo che il Messia viene a instaurare, ma anche un vaglio minuzioso di tutto ciò che è male e ingiustizia personale e sociale. La prima lettura lo esprime con parole intrise di luce:
«Un germoglio [ḥōṭer] spunterà dal tronco di Iesse… su di lui si poserà lo Spirito del Signore» (Is 11,1-2). «Giudicherà con giustizia i miseri, deciderà con equità per gli umili della terra…» (Is 11,3-4). Il termine ebraico rûaḥ (ר֫וּחַ, "spirito, vento, soffio") indica l'azione vivificante di Dio che rinnova la creazione e ridona speranza.
1. Giovanni Battista: il profeta tra due Alleanze
Giovanni Battista si staglia come il vero protagonista della domenica, ponte tra Antico e Nuovo Testamento, figura decisiva nel disegno salvifico di Dio. Matteo ne delinea la vocazione, la personalità e la missione con cura, presentandolo come autentico profeta, cioè – in greco, prophḗtēs (προφήτης) – colui che più che predire il futuro, interpreta il presente alla luce della Parola. Nell'Antico Testamento, il profeta è chiamato anche "uomo di Dio" (ish ha'Elohim, אִישׁ־הָאֱלֹהִים), "servo" ('ebed, עֶבֶד), "sentinella" (tsopheh, צֹפֶה), immagini dense di vigilanza e responsabilità.
Ma ciò che rende Giovanni unico tra i profeti è la sua capacità di annunciare il Messia non "da lontano", ma di proclamarne la presenza già in mezzo al popolo: la sua voce risuona nel deserto come un appello urgente alla conversione – metanoeîte (μετανοεῖτε), cioè cambiate mente e vita, come recita il testo di Matteo ("Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!", Mt 3,2). Origene ricorda che "la voce serve il Verbo", e così Giovanni serve Cristo. Giovanni è ponte, soglia tra le promesse e il loro compimento. Gesù stesso dirà: "Tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui" (Mt 11,11). Così la tradizione patristica vede in Giovanni il simbolo della vigilanza: sant'Ambrogio scrive che è "più di un profeta", perché indica non solo la venuta, ma la presenza del Signore. La radicalità della sua vita, fatta di essenzialità e sobrietà ("Portava un vestito di peli di cammello…", Mt 3,4), richiama Elia – 'Eliyahu (אֵלִיָּהוּ) – il profeta zelante. In un mondo spesso rumoroso, la voce di Giovanni invita a tornare all'essenziale, a preparare il cuore come terra pronta a ricevere il seme della speranza. Non è un caso che anche la musica contemporanea richiami la forza della sua testimonianza: "C'è una voce che grida nel vento, che chiama ad andare oltre la paura, ad aprire strade nuove nel deserto". In questo tempo di Avvento, lasciamoci provocare dalla voce del Battista. Che la sua parola ci accompagni nel cammino della vigilanza, della conversione, della speranza. Come scrive san Gregorio Magno: "La Sacra Scrittura cresce con chi la legge." Lasciamoci dunque plasmare dalla Parola, per diventare anche noi, nel nostro piccolo, segni viventi del Dio che viene a salvare.
2. Il nome "Giovanni": grazia e speranza che irrompe
Il nome Yôḥānān (יוֹחָנָן, traslitterato yochanan) custodisce un significato profondo e sorprendente: «Dio ha fatto grazia», «Dio è misericordioso», «dono del Signore». Non si tratta soltanto di una semplice etimologia, ma di una vera e propria dichiarazione profetica, capace di attraversare la storia della salvezza. Il salmista ricorda: «Il Signore è misericordioso e pietoso, lento all'ira e grande nell'amore» (ḥannûn we-raḥûm YHWH, Sal 103,8), così il nome Giovanni diventa sintesi vivente di questa promessa di misericordia. La grazia – cháris (χάρις) – in questo caso è inattesa e immeritata, perché Giovanni nasce da genitori sterili, come accadde a Sara e Abramo, oppure ad Anna, madre di Samuele. In lui si rinnova quel paradigma biblico secondo cui Dio interviene proprio quando tutto sembra impossibile. Origene, nella sua omelia su Luca, sottolinea: «Giovanni è la voce che precede la Parola, la voce che prepara la via all'ascolto del Verbo» (Logos, λόγος) che viene nel mondo. Giovanni è quindi il segno vivente dell'irruzione della grazia nella storia: «Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,19). Il suo nome stesso diventa icona di questa novità divina che sorprende e consola.
La grazia che porta Giovanni non è solo personale, ma universale: annuncia la misericordia (raḥamîm, רַחֲמִים) di Dio che si riversa sull'intera umanità. Giovanni prepara la via al Cristo (ho Christós, ὁ Χριστός), diventando ponte tra le promesse dell'Antico Testamento e il loro compimento nel Nuovo. San Giovanni Crisostomo scrive: «Ancora prima di parlare, Giovanni è già profezia vivente; la sua esistenza precede la Parola, come la rugiada precede il mattino.»
Il Battista è «la voce della Parola», come dice Origene, e la sua eco può essere avvicinata a quella che Emily Dickinson suggerisce in una sua poesia: «Hope is the thing with feathers that perches in the soul and sings the tune without the words». Così nel silenzio del deserto, Giovanni scuote i cuori e li prepara ad accogliere il Messia. La voce di Giovanni – qol (קוֹל) – risuona come invito all'ascolto autentico, come si legge in Isaia: «Una voce grida: Nel deserto preparate la via al Signore» (Is 40,3).
Persino la musica contemporanea sembra evocare la forza della sua testimonianza: «C'è una voce che grida nel vento, che chiama ad andare oltre la paura, ad aprire strade nuove nel deserto» (cit. da una canzone di Franco Battiato). In Giovanni si realizza la promessa che «la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,17), ma già in lui si manifesta la grazia che irrompe, trasforma, consola e inquieta. Così, il nome Yôḥānān non è solo una parola: è un destino, una vocazione, un invito a riconoscere la presenza di Dio che entra nella storia, spesso proprio dove meno ce lo aspettiamo. Come scrive San Gregorio Nazianzeno: «La grazia non si lascia prevedere, ma si fa trovare». In Giovanni, la grazia diventa visibile, tangibile, una luce che illumina la notte e prepara il cuore all'incontro con il Logos, il Verbo incarnato.
3. La voce nel deserto: consolazione e inquietudine
Perché Giovanni grida nel deserto? Il deserto, midbar (מִדְבָּר, translitterato midbàr), è il luogo del vuoto, della prova, dell'inquietudine, ma anche dell'incontro radicale con Dio. Proprio nel silenzio arido, dove ogni certezza sembra svanire, la voce di Giovanni risuona come una chiamata alla conversione e alla speranza. Il deserto è spazio di purificazione: qui l'uomo si spoglia di ciò che è superfluo, affronta la propria fragilità, e si apre all'ascolto autentico. Come scrive sant'Agostino, "Nel deserto il cuore si fa attento, perché il rumore del mondo non disturba la voce di Dio".
Isaia aveva annunciato:
«Nel deserto preparate la via al Signore… ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati» (Is 40,3-5).
Ma poi aggiunge con realismo:
«Ogni carne è come l'erba… il fiore appassisce» (Is 40,6-8).
Il profeta si interroga: ha senso ricostruire ciò che l'uomo distrugge? Eppure, proprio in questa tensione tra fragilità umana e promessa di salvezza si cela il mistero della fede. Il deserto diventa così luogo di consolazione (paráklēsis, παράκλησις) e di inquietudine, dove si sperimenta la carezza della misericordia divina ma anche il pungolo del dubbio. Giovanni, nella sua solitudine, sperimenta questa lotta interiore: dalla prigione, domanda a Gesù: «Sei tu colui che deve venire?» (Mt 11,3). La sua voce non è solo certezza, ma anche domanda, ricerca, attesa. Come dirà Dietrich Bonhoeffer, "La fede non è tanto il possesso di risposte, quanto il coraggio di porre domande". L'annuncio del Vangelo non è mai esente da dubbi, fatiche, ombre: "Proclamare" (kērýssō, κηρύσσω) non significa spiegare dottrine, ma testimoniare che solo Dio salva — non le strutture umane, ma la grazia che irrompe.
San Giovanni Crisostomo nota: "Il deserto è il luogo dove nulla parla, perché solo la voce di Dio possa essere udita". In questa prospettiva, la voce di Giovanni è come qol (קוֹל, translitterato qol), che rompe il silenzio e invita a preparare la via al Signore. La sua parola è insieme consolazione per chi spera e inquietudine per chi si lascia scuotere. Come canta Franco Battiato: «C'è una voce che grida nel vento, che chiama ad andare oltre la paura, ad aprire strade nuove nel deserto». E così, nel tempo della prova, la voce del Battista ci ricorda che il cammino verso Dio passa spesso per la solitudine, la domanda, il silenzio. Nel deserto, la Parola (Logos, λόγος) può finalmente essere accolta nel cuore che si lascia spogliare e rinnovare.
4. La conversione: accogliere il fuoco dello Spirito Santo datore di speranza
La parola di Giovanni, aspra ma liberante, si radica profondamente nel suo stile di vita austero, quasi monastico, che richiama il radicalismo dei profeti antichi. Il Battista diventa così semeia (σημεῖα, "segno") vivente di una chiamata che scuote e rinnova: la sua voce nel deserto non è solo ammonimento, ma appello vivificante. Il popolo accorre, si apre, si pente (metánoia, μετάνοια: cambiamento interiore e rinnovamento della mente e del cuore), e conferma la volontà di purificazione attraverso il battesimo d'acqua, simbolo di un passaggio, di una soglia oltre la quale si lascia il vecchio per abbracciare il nuovo.Eppure, questa voce nel deserto prepara una voce più grande. "Io vi battezzo con acqua… ma colui che viene dopo di me vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco" (Mt 3,11). Il battesimo di Giovanni è simbolico, segno di conversione, ma il battesimo di Cristo è in Spirito Santo e fuoco (pyr, πῦρ), cioè potenza viva che trasforma e rigenera. Il fuoco, nella tradizione biblica, è presenza di Dio che purifica: come per Elia sul Monte Carmelo (1Re 18,38), il fuoco consuma ciò che è vecchio e prepara la terra per la novità dello Spirito. Il cuore umano, come scrive Ezechiele, "sarà cambiato: vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo" (Ez 36,26).
San Paolo afferma che "Cristo ha accolto tutti, per la gloria di Dio" (Rm 15,7-9), sottolineando la radicale apertura della salvezza. In questa prospettiva, la conversione non è solo rinuncia, ma accoglienza piena: "Cristo non viene a togliere qualcosa, ma a dare tutto" (Benedetto XVI). L'incontro con il fuoco dello Spirito (Ruach, רוּחַ, "soffio, vento") trasfigura, non annienta; come canta Fabrizio De André: «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior». Dove c'è apertura, la vita viene trasfigurata, la cenere si fa humus, il deserto diventa giardino. Sant'Ireneo di Lione diceva: "La gloria di Dio è l'uomo vivente". Accogliere il fuoco dello Spirito significa lasciarsi bruciare dal suo amore creativo, perché solo chi si lascia purificare può davvero vivere. Il fuoco non è punizione, ma promessa di rinascita: come la colonna di fuoco (esh, אֵשׁ) che guidava Israele nella notte (Es 13,21), così lo Spirito guida il credente verso la luce. La conversione è allora un atto di coraggio, una risposta all'invito di Dio che, come nella poesia di David Maria Turoldo, "non chiede che di essere cercato". Il fuoco dello Spirito brucia il male, rigenera, trasfigura: nel cuore aperto, la Parola trova dimora. "Il nostro cuore non ardeva forse dentro di noi?" (Lc 24,32), si chiedono i discepoli di Emmaus. Così, nel cammino della vita, la conversione è sempre una nuova primavera, dove il vento dello Spirito (pneuma, πνεῦμα) ci fa fiorire, anche nel deserto.
5. Farisei e sadducei: la chiusura del cuore
Tra quanti accorrono alla predicazione di Giovanni, si distinguono i farisei (pharisaios, φαρισαῖος) e i sadducei (saddoukaios, σαδδουκαῖος), figure emblematiche di un potere religioso spesso impermeabile al soffio nuovo dello Spirito. Matteo, con parole taglienti, li definisce "razza di vipere" (Mt 3,7): un'immagine forte, quasi profetica, che smaschera l'ipocrisia (hypokrisis, ὑπόκρισις) e la durezza del cuore (sklerokardia, σκληροκαρδία), un veleno che insidia e può uccidere la vita spirituale. Nel Talmud si legge: "Un cuore chiuso è come una porta serrata: né entra la luce, né esce il profumo". Non basta, dunque, appartenere alla discendenza di Abramo (Avraham, אַבְרָהָם): "Dio può suscitare figli ad Abramo anche da queste pietre" (Mt 3,9), ammonisce Giovanni, ribadendo che la salvezza non è retaggio di sangue, ma dono di un cuore aperto e disposto alla metamorfosi interiore.
La conversione (metánoia, μετάνοια: cambiamento di mente e di vita) è il vero criterio decisivo, come afferma anche san Gregorio di Nazianzo: "Nulla è più grande della metanoia: essa rinnova l'uomo e lo fa splendere come una stella". La scure (axinē, ἀξίνη) già posta alla radice dell'albero evoca il giudizio finale: il male (ra', רַע) sarà tagliato e gettato via, mentre i giusti (tzaddikim, צַדִּיקִים) saranno raccolti nel granaio del Regno, come il buon grano separato dalla zizzania (Mt 13,30). Sant'Agostino ricorda: "Il Signore non cerca la quantità, ma la qualità del frutto". In questa prospettiva, ogni cuore indurito rischia di perdere la linfa vitale della fede, mentre chi si lascia purificare dalla Parola (Logos, λόγος) fiorisce come il deserto che si trasforma in giardino. E come canta Francesco Guccini: «Bisogna saper scegliere, nel tempo che ci è dato, quale radice nutrire e quale lasciare seccare». L'invito, dunque, è a non restare spettatori, ma a lasciarsi interpellare, perché la vera discendenza di Abramo è fatta di cuori che si aprono alla novità di Dio e accolgono il fuoco dello Spirito.
Conclusione
Nel deserto del mondo, dove il silenzio spesso sembra prevalere e il senso di smarrimento può farsi sentire più forte, la voce di Dio non cessa di risuonare. È una presenza discreta ma potente, capace di infrangere anche le solitudini più profonde e di chiamare ciascuno a un ritorno radicale verso la fonte della vita. Egli è il Datore del fuoco rovente dello Spirito, che non solo purifica e consuma ciò che è vecchio, ma rinnova ogni cosa nella giustizia e nella pace, così come il profeta Ezechiele annuncia: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo» (Ez 36,26). In questa promessa si cela la certezza che nessuna aridità è definitiva, nessun deserto è senza speranza.
E tu, fratello, tu sorella, sii voce di Cristo in questo umano deserto (midbār, מִדְבָּר: luogo dell'ascolto), lasciando che la tua vita diventi eco fedele di quella Parola che salva. Non basta ascoltare: occorre farsi canale, affinché attraverso gesti, parole e scelte quotidiane si oda ancora il suono limpido della Verità e il canto silenzioso, ma ostinato, della Speranza. Come ricorda Sant'Agostino: «Sii ciò che vedi e ricevi ciò che sei: corpo di Cristo», segno che la testimonianza autentica nasce dall'accoglienza profonda del dono ricevuto e si trasforma in luce per gli altri.
L'Avvento è proprio questo: accendere la speranza nel cuore, anche quando le circostanze sembrano avverse, e lasciarsi toccare da Dio per diventare piccole luci che guidano gli altri verso il Giorno che viene. È un tempo in cui la fede si fa attesa operosa, disponibilità a lasciarsi plasmare dallo Spirito e coraggio di indicare agli altri la strada della fiducia. «La speranza cristiana è come una fiaccola che non si consuma, ma anzi si rafforza nelle difficoltà» (Papa Leone XIV): custodirla e trasmetterla è il compito più alto di chi vuole essere segno credibile dell'amore di Dio nel mondo.
Vergine Maria, Donna totalmente docile allo Spirito, guidaci in questo tempo di Avvento ad accogliere la voce del Figlio, perché possiamo essere grano buono raccolto nel suo Regno. Come dice Efrem il Siro: "Tu, Maria, sei la terra che non conobbe aridità: in te fiorì il frutto della vita". Fa' che anche in noi fiorisca la vita nuova.
don Nicola De Luca
